Quale futuro per i musei civici e per i piccoli musei?

A proposito della creazione dei poli e dei sistemi museali regionali 

Un articolo di Ledo Prato del 26 febbraio scorso, comparso su Il Giornale delle Fondazioni, fa il punto sul futuro che potrebbe attendere i musei civici italiani a seguito della Riforma Franceschini. Vorrei esporre qui alcune mie considerazioni in merito all’argomento trattato. Quando si parla di politiche museali che propongono modalità di accentramento delle scelte gestionali e culturali, mi invade un vivo senso di preoccupazione in quanto il rischio è sempre quello di una perdita della capacità di produrre cultura in modo indipendente e senza i filtri di organi istituzionali sovrastanti. Non intendo dire, con questo, che i sistemi museali siano una scelta sempre negativa, ma dipende da che cosa si intende con questo termine. Se significa essere inquadrati in un rigido sistema gestionale che impone solo standard generali e che inibisce le iniziative dei singoli, allora ritengo che i sistemi museali siano una scelta negativa; se invece sono utili soprattutto per dare vita ad occasioni di confronto e a progetti comuni, nel rispetto delle individualità e delle autonomie di ciascuna istituzione museale aderente, allora ben venga questa soluzione. Nell’articolo di Prato si parla della possibilità di un accorpamento dei musei locali ai Poli regionali, i quali - si legge - “possono favorire le relazioni con le diverse forme di autonomia che hanno assunto i musei civici e porre le basi per la realizzazione di politiche museali territoriali che ricompongono l’offerta a vantaggio dei cittadini e dei visitatori”. I Poli, in realtà, saranno inevitabilmente organismi fortemente accentratori, "la cui costituzione sarà promossa e realizzata dai direttori dei poli museali regionali sulla base di modalità di organizzazione e funzionamento del sistema museale nazionale stabilite dal Direttore generale Musei, sentito il Consiglio superiore “Beni culturali e paesaggistici” (vedi decreto musei). Non sembra poi così improbabile che un museo locale, inglobato in una struttura così complessa, gestita da una tale pluralità di soggetti, avrebbe poco margine di manovra e vedrebbe fortemente ridotta la propria indipendenza scientifica, culturale e gestionale. Oltretutto non è chiaro se tale soluzione porterebbe effettivi benefici dal punto di vista finanziario dato che nell’articolo di Ledo Prato si legge espressamente che sarà opportuno il ricorso alle associazioni e al volontariato “per la gestione dei servizi destinati alla fruizione e valorizzazione dei beni culturali, attraverso lo strumento delle convenzioni”. Mi chiedo, allora: qual è la novità? I musei civici non sono forse quasi sempre gestiti in economia dagli enti locali con il supporto del volontariato? Se questo è ciò che prevede l’appartenenza ad un Polo, si deve pensare che i vantaggi da questo punto di vista sarebbero pari a zero. 

Si specifica, poi, che “con atti successivi è possibile che siano meglio definiti i “servizi strumentali comuni destinati alla fruizione e alla valorizzazione di beni culturali” e si capirà se in questo contesto si potranno immaginare accordi che contemplino l’affidamento congiunto fra musei statali e musei civici dei servizi al pubblico (ex legge Ronchey) o quali saranno le procedure attraverso le quali si potrà pervenire alla costituzione di uffici comuni, obiettivo già inseguito senza successo nelle riforme a cavallo fra i due decenni che ci hanno preceduto”. Questo è l’aspetto più preoccupante della visione che viene prospettata nell’articolo di Prato. Sebbene in ambito statale si sia constatato che l’affidamento a società esterne dei servizi al pubblico ha prodotto quella nefasta divisione tra tutela e valorizzazione e, in generale, un appiattimento delle proposte culturali ed educative dei singoli musei, si vorrebbe includere anche i musei locali in questa strategia che ha già mostrato molti lati negativi. Ciò è paragonabile a voler annullare le singole voci di un coro che può essere melodioso solo se ogni corista potrà esprimere le proprie specifiche vocalità e tonalità. Può esserci bellezza in un suono piatto e indifferenziato? 

Continuando la lettura dell’articolo, a un certo punto l’Autore fa riferimento ai piccoli musei affermando che “per lungo tempo è prevalsa l’idea che occorresse una specifica politica per i piccoli musei e, in qualche caso, si è sostenuto che fosse necessaria una legislazione speciale che ne rispettasse le specificità. Probabilmente poteva essere una strada utile. Ma in un Paese dove tutto si ritiene che possa essere affrontato e risolto con il ricorso alla produzione di nuove leggi, con tutto ciò che ne consegue, dubito che sarebbe stata o sia una strada efficace”. Ora, chi ha seguito il dibattito museologico di questi ultimi anni sulle tematiche che riguardano i piccoli musei, sa che l’Associazione Nazionale Piccoli Musei fondata da Giancarlo Dall’Ara è stata la prima a focalizzare l’attenzione generale sulla necessità di una specifica politica per i piccoli musei. Stiamo parlando degli ultimi sei anni e bisogna anche precisare che finora nulla è stato fatto, a livello ministeriale, per discutere le proposte avanzate dall’Associazione. Non si può dire, quindi, che si tratti di un argomento ormai superato perché, al contrario, chi segue i convegni nazionali dell’APM sa che è ancora molto vivo e sentito e che si è tuttora in attesa dell’auspicato, diretto confronto tra le Istituzioni e i musei di ogni forma giuridica. Finché tutto ciò non sarà attuato, dunque, non è lecito affermare che la questione è ormai vecchia e superata. Certamente ritengo che, per i motivi sopra espressi, la soluzione ai problemi di gestione non possa essere la creazione di “reti museali di area vasta” e l’istituzione di “forme consortili non imprenditoriali per la gestione di uffici comuni” perché, al contrario di quanto prevede Prato e nonostante le migliori intenzioni dei legislatori, temo che proprio questo potrebbe invece marginalizzare i piccoli musei, in particolare quei musei che risultano “poco produttivi” dal punto di vista economico, dimenticando che i risultati che un museo deve garantire, in particolare un piccolo museo situato in aree poco interessate da grandi flussi turistici, devono piuttosto riguardare non il numero di biglietti staccati ma l’efficacia della sua azione culturale, educativa e sociale in seno alla propria comunità. Ciò può essere assicurato solo da professionalità che siano fortemente integrate nel tessuto sociale in cui operano, che siano in grado di conoscere profondamente le problematiche e le aspettative della comunità e che quindi sappiano adeguare le finalità del museo alle specifiche situazioni socio-ambientali. 
A che cosa potrà servire, allora, l’appartenenza ad un polo museale e la conseguente imposizione di direttive a istituzioni museali completamente diverse tra loro per tipo, forma giuridica e dimensioni? Si finirà con il peggiorare le stesse difficoltà che finora sono emerse con l’applicazione di standard generali a modelli museali eterogenei, alla fine privilegiando sempre la grande dimensione rispetto alla piccola. Da ciò era nata l’esigenza di normative specifiche per i piccoli musei che è stata appunto rimarcata dall’Associazione Nazionale Piccoli Musei.

Ritengo, dunque, che non si possa fare una proposta di tale impatto per il futuro dei piccoli musei e liquidare le criticità che potranno presentarsi lasciando al dopo “tutte le questioni sul futuro dei musei, sul loro ruolo, sulle innovazioni possibili, sul rapporto con i territori e le comunità, sul ruolo dei visitatori e così via”. Tutto questo, invece, deve essere discusso prima di ogni tentativo di riforma in modo da non incorrere in errori che potrebbero essere fatali per il futuro delle piccole realtà museali del nostro Paese.

Kenneth Hudson non sbagliava quando diceva che i grandi musei dovrebbero comportarsi come un insieme di musei piccoli perché aveva intuito che un museo di piccole dimensioni presenta dei vantaggi che ancora oggi troppo spesso la politica tende non solo a sottovalutare ma, ancora peggio, a considerare un problema, indirizzando così le proprie decisioni non verso la valorizzazione dei piccoli musei ma verso una loro trasformazione in musei grandi, accorpando, centralizzando, snaturandone l’essenza stessa e la vocazione.
Ci sono ambiti che non possono essere gestiti con una mentalità da banchiere. Sono quegli spazi, come i musei, che appartengono di diritto alla comunità ed è principalmente in ragione di questo legame che devono essere studiate le soluzioni più idonee. Se molti musei rischiano la chiusura è perché non si è lavorato per “essere amici del pubblico”, per riprendere un’altra frase di Kenneth Hudson. Tutto il resto è secondario, a cominciare dal numero dei visitatori che sembra essere la preoccupazione maggiore delle politiche culturali di sempre. Quando si inizierà a parlare meno di numeri e più di progetti realizzati, saremo sulla buona strada.

T-Essere Memoria conquista Parigi

Musées (emportables) 2016: spazio ai progetti che favoriscono l'accessibilità


La mia ultima partecipazione a Musées (em)portables come membro della giuria mi ha regalato una bellissima soddisfazione: vedere nuovamente vincente un video italiano. Dopo la vittoria del 2014 del Museo Archeologico Virtuale di Ercolano che presentò il video di Raffaele Gentiluomo, "Vesuvius making of" e vinse il premio per il miglior short-film straniero, quest'anno il progetto “T-Essere Memoria”, realizzato dall'Ufficio Beni Archeologici della Provincia Autonoma di Trento, ha vinto un premio particolarmente importante: l'ICOM-Musée pour tous, il premio speciale voluto dall'Icom per promuovere l'accessibilità nei musei. La mia presenza alla premiazione in qualità di rappresentante dell'Associazione Nazionale Piccoli Musei è stata, pertanto, per me doppiamente importante in quanto nella mia collaborazione con l'APM ho potuto sviluppare due tematiche che quest'anno sono state, insieme, il filo conduttore anche del festival francese: la promozione visuale dei musei (dal documentario allo short-film, allo spot, al trailer) e l'accessibilità.  
I tre film che hanno ricevuto gli ambiti riconoscimenti Icom per le produzioni audio-visive che hanno descritto più efficacemente il rapporto tra i musei e il pubblico con ridotto accesso alla cultura (fasce sociali svantaggiate, persone con disabilità, nuovi immigrati, residenti nelle zone rurali, ecc.), sono stati:

T-essere Memorie, incentrato sul programma di attività per i malati di Alzheimer svoltosi nel 2015 presso il Museo delle Palafitte di Fiavé, in provincia di Trento. 

Il secondo premio è stato assegnato al film Quand l'art sert d'union, che descrive un progetto educativo presso il Museo Nazionale di Scultura di Valladolid, in Spagna, per persone affette da malattie mentali che hanno potuto lavorare come guide nel museo per un giorno. 

Il terzo premio è andato a Piquer une tête, realizzato da un gruppo di adolescenti in gravi difficoltà scolastiche e sociali di Marly, nel nord della Francia, durante una visita al Musée des Beaux-Arts di Valenciennes.

La premiazione si è svolta presso la Cité de la mode et du design, a Parigi, lo scorso 13 gennaio. Anne-Catherine Robert-Hauglustaine, direttore generale di ICOM, ha assegnato i premi ai tre film vincitori della sezione speciale. Per l'Italia hanno ritirato il premio Luisa Moser, dell'Ufficio beni archeologici della Provincia Autonoma di Trento, ed Emanuela Trentini della APSPMargherita Grazioli di Trento.

Anne-Catherine Robert-Hauglustaine, Icom

I premiati

I film vincitori del Premio Museés Emportables sono stati: 

- primo premio a "HDA", video realizzato dagli studenti del Liceo Saint Paul di Lille nelle sale del Palazzo delle Belle Arti.
- secondo premio a "Pourquoi le noir ?" di Zoé Tibloux e Ismael Mounime.
- terzo premio al video del museo cecoslovacco, Regionální muzeum a galerie di Jičíně, intitolato "Muséum spot 2".


La premiazione 

Musées (em)portables si svolge ogni anno in occasione del SITEM, il Salon des Musées des lieux de culture et de tourisme.
Ringrazio il Presidente di Museumexperts e commissario generale di SITEM, Jean François Grunfeld, per avermi voluta nella giuria per tre anni consecutivi. E' stata un'esperienza particolarmente bella e arricchente che ha accresciuto il mio interesse per il video making, gli short films e il cinema documentaristico. 

SITEM 2016

Il progetto T-essere memoria:

Il progetto “T-Essere Memoria”, attuato da febbraio a giugno 2015, ha coinvolto un gruppo di 12 malati di Alzheimer ospiti dell'Azienda Pubblica di Servizi alla Persona di Povo (dotata di un nucleo specializzato rivolta a questo tipo di pazienti). Il percorso sperimentale è stato proposto dai Servizi Educativi dell’Ufficio beni archeologici della Soprintendenza per i beni culturali nell'ottica di aprire le porte del Museo delle Palafitte di Fiavé ad un pubblico che difficilmente in questa fase della vita viene accompagnato in museo o partecipa a laboratori archeologici. Sono stati condotti sei incontri con laboratori pratici e un'uscita finale presso il museo. Il primo momento di confronto è stato finalizzato alla conoscenza reciproca, indispensabile per prendere confidenza ed instaurare un rapporto di fiducia sia con l'educatore che con gli altri partecipanti. Negli incontri successivi, partendo da copie di reperti appositamente selezionati, si è dato ampio spazio all'osservazione, alla manipolazione e alla discussione, in modo da mettere in atto la stimolazione cognitiva e la valorizzazione delle abilità residue. Ogni partecipante ha potuto toccare, osservare, riconoscere alcuni oggetti, fare supposizioni, cercare di portare a galla ricordi o antichi gesti. Reperti molto semplici, essenziali ma ricchi di significato, utili per stimolare la memoria dei partecipanti.
Attraverso l’interazione diretta con i reperti, si è cercato di sollecitare lo scambio di idee, di far scaturire ricordi ed esperienze personali e di mettere in relazione il proprio vissuto con i materiali e gli oggetti archeologici. Sono stati inoltre proposti, partendo dalle attività documentate dagli archeologi a Fiavé, laboratori di tessitura, lavorazione dell'argilla e preparazione del burro. Tutte le pazienti hanno partecipato volentieri (aspetto non scontato per chi soffre di Alzheimer), si sono messe in gioco, hanno saputo riprodurre, con estrema facilità e grande attenzione antichi gesti, dimostrando come alcune abilità, quali il "saper fare", la manualità e la creatività permangano nonostante la malattia, se adeguatamente sollecitate. I laboratori pratici sono risultati esperienze stimolanti, emotivamente coinvolgenti e piacevoli, che hanno permesso di accedere a personali memorie e saperi, di potersi mettere in gioco, sperimentare le proprie abilità e anche aumentare la propria autostima.
La visita al Museo delle Palafitte e all'area archeologica ha concluso il percorso: uscire dalla struttura protetta per andare in un posto nuovo e sconosciuto è stato un momento arricchente e ha assunto anche un valore particolare. Il museo si è dimostrato infatti un luogo ricco di stimoli dove le partecipanti hanno mostrato grande capacità di osservazione, anche di particolari che sfuggono ai più. Si sono sentite a loro agio, libere di muoversi, di esprimersi, di toccare, di fare domande e di veder esaudite le loro curiosità. Momenti dedicati a laboratori pratici, alla creatività e la visita ad un museo, possono dunque influenzare positivamente la qualità della vita di un paziente affetto da Alzheimer.
L’esperienza fatta ha confermato che il museo, se reso fruibile e “partecipativo” può avere un ruolo sociale e può aiutare nel decorso della malattia a migliorare la qualità di vita dei pazienti ma anche di chi si occupa di loro, i care giver, i quali si trovano a condividere questa devastante patologia.
Il Gruppo di lavoro che ha seguito il progetto è composto da Luisa Moser (responsabile dei Servizi Educativi dell’Ufficio beni archeologici, Soprintendenza per i beni culturali), Roberto Maestri, Alberta Faes e  Emanuela Trentini (animatore, fisioterapista e educatore della APSP di Povo).
I risultati positivi di questo innovativo percorso hanno consentito di coinvolgere altre APSP del Trentino (S.Croce nel Bleggio, S.Spirito a Pergine Valsugana, Pinzolo, Condino, Pieve di Bono e Storo) dove nei prossimi mesi sarà riproposto il progetto con incontri, laboratori e visite al sito archeologico e al Museo delle Palafitte di Fiavé.

La rappresentazione dei musei attraverso i mezzi visivi: dai documentari del Ventennio a Youtube

An excursus on the history of the documentary and the visual representations of the museum in Italy, from fascist period to the age of Youtube.
Paper presented at V Convegno Nazionale dei Piccoli Musei, Viterbo, Museo Nazionale Etrusco, Rocca Albornoz, 26-27 settembre 2014

"Musei accoglienti. Una nuova cultura gestionale per i piccoli musei. Atti del V Convegno Nazionale dei Piccoli Musei, a cura di Francesca Ceci e Caterina Pisu, Edizioni Archeoares, 2015
 

L'oro della Tuscia: un blogtour per raccontarlo

Ho il piacere di ospitare nel mio blog il racconto di un’esperienza culturale “immersiva” nelle tradizioni produttive tipiche della Tuscia, sul filo tematico dell’olio di oliva. Così come ho scritto, poco tempo fa, sull’azienda aretina Tarazona, ora ho deciso di dare spazio al blogtour “Lazio, terre dell’olio” perché sono convinta che esista una relazione molto stretta tra la visita di un museo e l’osservazione delle tradizioni ancora vive di un territorio, se non nel tipo di “oggetto” culturale che contraddistingue le varie esperienze, di certo nelle identiche sensazioni che si provano e nell’arricchimento interiore che in entrambi casi ci viene donato.

Il blogtour #oliveoillands è stato organizzato da PAPER MOON Tour Operator (Laura Patara) insieme a QUARTO SPAZIO Agenzia di viaggi e Tour operator (Sandra Morlupi). Hanno preso parte all'evento i blogger e giornalisti Liliana Comandè, Philiip Curnow, Giuseppina Marcolini, Laura Patara (Paper Moon), Francesca Pontani, Paola Romi, Mauro Sciambi e Geraldine Meyer. 


Foto di Francesca Pontani

C’è un tipo di turismo che, al di là della ricerca di beni e servizi di qualità, si preoccupa soprattutto dell’autenticità dell’esperienza turistica, ovvero della conoscenza approfondita del territorio. La memoria del viaggio può mettere radici solide solo attraverso l’esercizio di tutti e cinque i sensi, sollecitando ciascuno con i modi e i tempi di lavoro e di vita dei luoghi visitati. Quando Laura Patara, tour operator viterbese, mi ha invitata a prendere parte al blogtour dedicato al progetto “Lazio, terre dell’olio”, svoltosi tra Viterbo e Vetralla, ho subito accettato con entusiasmo e con grande interesse, conoscendo molto bene l’idea di turismo che Laura propone ormai da vari anni, così legata alla valorizzazione della cultura, delle tradizioni e delle produzioni locali. Questo è il racconto della parte centrale del primo giorno, cui ho preso parte, e che ho voluto suddividere in base ai miei ricordi “sensoriali”.

L’olfatto e il tatto

Dopo la visita ai luoghi notevoli della città di Viterbo, come la Piazza del Comune, il Palazzo dei Papi e il Quartiere San Pellegrino, ho raggiunto il gruppo da Mario Matteucci, un anziano imprenditore che gestisce un frantoio in piena Viterbo, al Paradosso. Il Sig. Matteucci produce l’olio con la spremitura a freddo e usa ancora i fiscoli, i filtri di  fibra vegetale che hanno la funzione di separare la polpa delle olive dal succo. Ho nella mente il ricordo del profumo pungente delle olive spremute, quell’odore erbaceo che già prelude al prodotto finale, e la sensazione della superficie ruvida dei fiscoli che il sig. Mario crea ancora artigianalmente con grande maestria.


Foto di Francesca Pontani

La vista e l’udito

Mi sono immersa nella bellezza dell’oliveto dell’azienda Degiovanni di Vetralla in cui si produce l’olio extra vergine d’oliva biologico “Supremo”; ho ascoltato il vento che muoveva le fronde degli olivi, ho riposato lo sguardo nel verde della campagna, ho osservato i raggi del sole che filtravano attraverso i rami degli alberi. Un attimo dopo, a pochi passi da quella pace, il fragore delle macchine che eseguono le varie fasi di produzione dell’olio non mi ha infastidito: era il rumore del lavoro, dell’energia necessaria per creare un prodotto di qualità. Ho seguito con interesse la separazione delle olive dai rami e dalle foglie, il lavaggio, la spremitura, immaginando questo ciclo produttivo ripetersi giorno per giorno, dopo la raccolta delle olive.


Foto di Francesca Pontani

Il gusto

Come dimenticare la splendida acquacotta della signora Benedetta, la proprietaria del ristorante di Vetralla, aperto fin dalla fine degli anni ’50? Ricette semplici ma con tutto il sapore di queste terre. Lo stesso piatto che i contadini viterbesi mangiavano anche cento, duecento anni fa: eredità da conservare con cura per tanti motivi, non da ultimo la sua indubbia bontà. 


La foto della Signora Benedetta è di Norma Hengsberger

E poi il gusto dell'olio d'oliva, degustato con la guida di Andrea Degiovanni, e quello dei deliziosi vini biologici prodotti dall'azienda Chiarini-Wulf di Vetralla.


Un bel viaggio nell’Italia che produce. #oliveoillands



Il salone internazionale dei musei, dei luoghi della cultura e del turismo a Parigi, dal 12 al 14 gennaio 2016



Quest’anno la 20a edizione del SITEM – organizzato da Museumexperts a Parigi il 12, 13 e 14 gennaio 2016, presso la Docks – la Città della Moda e del Design, prevede un eccezionale programma di conferenze internazionali: si parlerà di musei e comunicazione digitale, di accoglienza e della necessità che il patrimonio culturale sia in grado anche di generare sviluppo economico e sociale, di accessibilità, di sicurezza, di documentari e dei nuovi mezzi di divulgazione, di musei e di politica culturale, di turismo culturale alternativo in ambito urbano.

Si potrà assistere a ben 12 conferenze che illustreranno molti casi studio.
Qui il programma delle conferenze e qui il programma degli workshops. 

Nel corso del SITEM, il 13 gennaio, alle ore 12, si svolgerà anche la cerimonia di premiazione degli autori dei migliori video che hanno partecipato al concorso Musées (em)portables

Ulteriori informazioni qui.

Questi gli orari di apertura del salone per i beni culturali:

- martedì 12 gennaio: 9:30 - 6:30 p.m.
- mercoledì 13 gennaio : 9:30 - 20h
- giovedì 14 gennaio : 9h30-17h

Per partecipare al SITEM è necessario richiedere fin da ora il badge d’ingresso a questo link

Presso, Les Docks, Cité de la mode et du design
34, quai d’Austerlitz, 75013 Paris


Un vino "da museo"


Storia un vino, di archeologia sperimentale, di musei e di un legame indissolubile con una terra antica. Intervista a Francesco Mondini e a Maurizio Pellegrini

Synaulia e Il Centro del Suono hanno organizzato centinaia di banchetti in moltissimi musei ed aree archeologiche italiane ed europee (il Prahistorische Staatssamlung Museum di Monaco, l’ArchaologischerPark Regionalmuseum di Xanten, Germania, il Parco Archeologico di Baratti ePopulonia, il Museo Guarnacci di Volterra, solo per citarne alcuni), si sono occupati di rievocazioni di archeologia sperimentale svolte nei musei e negli anfiteatri di Monaco, Trier, Xanten, Aalen, Bonn, Bad Gogging, Mainz, Rosenheim e a Berlino nell'Altes Museum, oltre ad aver collaborato a numerosi documentari, programmi scientifici e film, soprattutto nelle scene di banchetto, per esempio in Sogno di una notte di mezza estate di Michael Hoffman, Il Gladiatore di Ridley Scott, Nativity di Catherine Hardwicke, Empire di Kim Manners.

Nei loro banchetti, però, c’era un problema: il vino. I vini prodotti con metodi moderni non erano certamente adatti per riprodurre in modo perfetto un banchetto ispirato all’epoca etrusca e romana, studiato in ogni minimo dettaglio e con l’attenta lettura delle fonti antiche.

E’ così che inizia la collaborazione con Francesco Mondini (Azienda agricola Tarazona Miriam), il quale, resosi conto che il vino servito durante i banchetti non era all’altezza della cucina di Egidio Forasassi, decide di dare vita ad una produzione sperimentale di vino prodotto nel modo più fedele possibile con il metodo in uso presso gli Etruschi.

In Italia, ormai da molti anni si stanno portando avanti ricerche storiche, archeologiche e botaniche sulle viti e sulla vinificazione delle origini. Questa branca di studi presenta aspetti interessanti anche sotto l’aspetto dello sviluppo economico locale e il progetto realizzato da Francesco Mondini nella campagna aretina, congiunge imprenditoria e cultura. Gli studi e le sperimentazioni di Mondini sono iniziate ben 15 anni fa e solo da poco ha finalmente visto la luce il Vinum Nerum, un rosso che Francesco ama definire una “spremuta d’uva”, in quanto non contiene solfiti, né alcun altro tipo di conservante. Nei quindici anni di test sono stati consultati storici, archeologi, dottori in agraria, geologi e mastri cocciai per ricreare le giare che servivano per la conservazione del vino.
Maurizio Pellegrini, in particolare, ha seguito da vicino il progetto avendone intuito le potenzialità anche dal punto di vista educativo e divulgativo. Grazie a lui, sono entrata in contatto con Francesco Mondini e sono stata invitata, insieme a Laura Patara (tour operator) e a Francesca Pontani (archeologa, redattrice web e membro del consiglio scientifico del Museo Archeologico delle Necropoli Rupestri di Barbarano Romano) a visitare l’azienda e a conoscere il metodo di vinificazione del vino Nerone e del vino Nerum.

La bellissima Azienda Tarazona ha vitigni di circa 80-90 anni che sono di Sangiovese, Canaiolo, Ciliegiolo, Albana, Trebbiano, Malvasia, che vengono sapientemente uniti in percentuali 85% uve rosse e 15% uve bianche. La vigna viene trattata con sistema biologico certificato e biodinamico, cioè concimata con trinciature e tenuta a prato con escrementi animali. Appena raccolta, l’uva viene pigiata una parte a mano e una parte messa in graspugliatrice (molto lenta) e poi una volta riunita, fatta fermentare in cantina in orci di terracotta per 12-15 giorni, follandola manualmente, specie i primi giorni, almeno 4-5 volte al giorno.


La "collina degli orci" presso l'azienda Tarazona di Arezzo


La "collina degli orci" vista dal basso
Francesco Mondini accanto agli orci interrati.

Avvenuta la totale trasformazione degli zuccheri in alcool, il mosto viene portato nella collina degli orci, dove sono posizionati sia gli orci coibentati con resine e cere da dove poi uscirà il Nerum, sia gli orci vetrificati da dove uscirà il Nerone (che ho avuto il piacere di assaggiare durante il banchetto magistralmente preparato da Egidio Forasassi).


I vitigni

Il Nerone viene messo sotto terra senza utilizzo di pompe, dove la temperatura costante, la quasi completa assenza di ossigeno, il buio e l’interscambio con la terra lo rendono un vino unico nei colori, nei profumi, nei sapori e nei retrogusti, veramente senza paragoni. Dopo 18 mesi verrà imbottigliato in magnum e tenuto altri 6 mesi in cantina prima di essere messo sul mercato.


Un magnifico panorama del vigneto


Nel novembre 2013, l’Unesco ha dichiarato Intangible Cultural Heritage la vinificazione in orci in Georgia, uno Paese che vinifica ancora come 5000 anni fa, e pertanto anche l’Azienda Tarazona ha potuto ricevere i permessi per poter commercializzare l’unico vino al mondo fatto con il metodo Mondini, che unisce storia e tecnologia.


Francesco Mondini videointervistato da Francesca Pontani

Per illustrare nel modo migliore il progetto Vinum Nerum, ho rivolto alcune domande a Francesco Mondini e a Maurizio Pellegrini.


Francesco Mondini, come è nata l’idea di riprodurre il vino etrusco?

Nel 2000 fui invitato ad un convivio etrusco-romano a Populonia da un caro amico che oltre che cucinare suona anche con i Synaulia (www.soundcenter.it). Alla fine della splendida serata con cena e musica nella necropoli, mi avvicinai al mio amico e obbiettai sulla veridicità del vino servito durante il convivio; ne nacque una bella discussione alla fine della quale decisi di dedicare una parte della vinificazione del nostro vino a esperimenti per arrivare a produrre un vino il più possibile simile a quello che bevevano i nostri avi. La totale assenza di aggiunte chimiche portava ad un gran numero di problemi che con il passare degli anni grazie oltre che ai nostri studi anche alla collaborazione con archeologi, dottori in agraria, geologi, enologi sono stati felicemente superati.


L'ingresso alla "cantina etrusca"

Come avviene il processso di vinificazione nelle giare?

Qui in Toscana il vino “Nerum”, dopo essere stato spremuto in cantina, riposa per almeno 1 anno in orci realizzati a mano da mastri cocciai, coibentati a mano con resine e cera, completamente interrati a 3 mt di profondità per poi tornare negli orci in cantina per almeno 6 mesi. Nel 2015, dopo 25 secoli, potremo gustare un vino vinificato con il metodo antico, quindi quello che ad oggi si può supporre si avvicini di più al vino di quell'epoca, di questa zona, sulla base del percorso di archeologia sperimentale da noi effettuato. I sapori e i profumi derivati dall’interscambio con la terra e con la coibentazione lo rendono un vino totalmente unico e la gradazione può arrivare fino a 15 gradi.


I grandi orci per la conservazione del vino.

Il vino è completamente naturale in quanto non contiene solfiti aggiunti, quanto è difficile ottenere questo risultato?

E' molto difficile e dopo anni di aceto, grazie ai vitigni che donano un uva già ben strutturata, grazie alla collaborazione di enologi, geologi e dottori in agraria siamo riusciti con grande igiene in cantina in primis e poi con l'aiuto di azoto e argon che eliminano l'aria e sopratutto i travasi in tempi ridottissimi, ad ottenere un prodotto con solforosa bassissima. La longevità di questo vino la stiamo studiando ma abbiamo campioni di 13 anni rimasti inalterati nel tempo.

Il vino prodotto è attualmente un rosso. Avete in programma anche la produzione di un bianco?

Come dicono alcuni archeologi il primo vino è stato il bianco, non so quale sia stato veramente il primo ma quest'anno abbiamo sperimentato il metodo Mondini anche sulle nostre uve bianche. Vista l'annata fantastica, un mix di albana, trebbiano e malvasia ed un vitigno sconosciuto porteranno nel 2017 ad assaporare il nostro primo vino bianco, sperimentato già nel 2003 e nel 2005.


L'interno della "cantina etrusca"

I vitigni sono quelli di suo nonno e risalgono quindi circa a 80 anni fa. E’ previsto per il futuro un’ulteriore fase del progetto che preveda anche l'utilizzo di vitigni più antichi?

Siamo in una costante fase di ricerca con archeologi come Maurizio Pellegrini ed anche con la comunità montana e l'istituto per la selvicoltura di vitigni antichi. Poiché i pochi esperimenti fatti non sono in vendita, per ora cerchiamo di apprendere i modi di riproduzione ed i vari innesti usati. Siamo in contatto anche con due aziende che in maremma producono l'ansonica o insulia che è un vitigno addirittura portato dai greci. Pensiamo il prossimo anno di usarla e fare un esperimento al posto della nostra bianca locale. L'obbiettivo sarà riprodurre il Nerum anche con vitigni antichi.

Quali saranno i canali per la distribuzione commerciale del vino? Dove si potra' reperire?

Ci stiamo preparando alla prima uscita, per cui tanta curiosità specialmente dall'estero con contatti dal Giappone dall'Inghilterra, da Singapore, dalla Germania e tanti altri posti, stiamo valutando tutte le richieste che ci arrivano. Noi abbiamo solo 170 Anfore di Nerum e circa 150 magum di Nerone, per cui visto la modesta quantità per noi sarebbe un grande onore partire con vendite alle aste dirette a collezionisti o amatori non solo del vino ma anche della storia che il vino ci tramanda. Siamo stati contattati anche da un distributore locale per il vino Nerone, ma comunque per ora si può reperirlo direttamente in azienda.

La sigillatura dell'orcio  

Maurizio Pellegrini, a che epoca risalgono le prime tracce della produzione del vino in Italia?

Negli ultimi anni le ricerche nel campo della paleobotanica sono effettivamente aumentate e rincorrerle, anche per i diretti interessati, è abbastanza complesso.
La cultura classica da sempre ha attribuito ai Fenici, che colonizzarono l'Italia attorno all'800 a.C., e successivamente a Greci e Romani, il merito di aver introdotto la vite domestica nel Mediterraneo occidentale e la recente scoperta di un vitigno coltivato circa tremila anni fa (1300 - 1100 a. C.) dalla civiltà Nuragica finalmente contraddice con valide prove tale teoria. Infatti presso un nuraghe nelle vicinanze di Cabras, presso Oristano, sono stati scoperti alcuni semi di vitigni di vite domestica probabilmente di origine locale o, forse, importata più anticamente. A suffragio di questa ipotesi, il gruppo di ricerca sta raccogliendo materiali in tutto il Mediterraneo cercando tracce per verificare possibili "parentele" tra le diverse specie di vitigni. I semi, di vernaccia e malvasia ritrovati in un "pozzo dispensa", sono stati datati con l'esame del carbonio 14 dagli studiosi dell'equipe archeobotanica del Centro Conservazione Biodiversità dell'Università di Cagliari e fanno ritenere che la coltura della vite nell'Isola fosse conosciuta sin dall'età del bronzo. Grazie alla prova del Carbonio 14 i semi sono stati datati intorno a 3000 anni fa, età del bronzo medio e periodo di massimo splendore della civiltà Nuragica".
Invece alcune tracce di Vitis sylvestris, con forme di embrionale coltivazione, sono stati trovate anche nei siti della "Marmotta" sul lago di Bracciano datate fra il 5750 e il 5260 a.C. e di Sammardenchia-Cûeis, in provincia di Udine, un sito datato tra il 5600 e il 4500 a.C. circa.
Altri resti di vite selvatica sono stati rinvenuti nei siti di Piancada (Udine) e Lugo di Romagna (Ravenna), entrambi risalenti al Neolitico antico.
Nella direzione di una origine indigena della viticoltura in Italia vanno anche le ricerche praticate nell'ambito del "Progetto Vinum" mediante lo studio degli aspetti legati all’origine e all’evoluzione della viticoltura, al processo di produzione del vino nell’antichità e con le analisi dei genotipi delle viti autoctone campionate in prossimità dei siti etruschi e romani.


La preziosa anforetta del Nerum


La sperimentazione condotta dall’Azienda Tarazona di Francesco Mondini è un interessante esempio di connessione tra nuove forme di imprenditoria e cultura. Quali potrebbero essere gli sviluppi futuri? Penso, per esempio, al turismo culturale o alla possibilità di realizzare esperienze didattiche all’interno dell’azienda.

L'esperienza portata avanti dall’Azienda Tarazona apre veramente nuove prospettive; per prima cosa la vinificazione praticata dagli amici Francesco Mondini ed Egidio Forasassi demitizza finalmente la convinzione comune che il cibo dell'antichità non possa essere gradito anche ai giorni nostri. Effettivamente gran parte del vino antico aveva una gradazione alquanto elevata, questo perché in questo modo poteva essere conservato più a lungo e per questo motivo doveva essere diluito ed aromatizzato. Ma, sono certo, che in condizioni ottimali e sempre legate al ceto, il vino doveva essere anche molto buono. Quindi bere oggi un vino che si avvicini alla vinificazione antica ma che abbia anche un gusto "moderno" non può che essere considerato un azione culturale ed avvicinarci di più alla nostra storia come apprezzare un affresco in un sito o un antico vaso nella vetrina di un museo.  Un futuro sviluppo può essere senz'altro quello del turismo culturale da effettuarsi nelle aziende che seguiranno questo impulso ed esperienze didattiche accompagneranno indubbiamente questa nuova prospettiva imprenditoriale.

I musei, le aree archeologiche, le istituzioni culturali che sono interessate alla realizzazione di eventi con Synaulia e con l’Azienda Agricola Tarazona possono utilizzare i seguenti contatti:

Il caso dell’Art Institute of Chicago: fuori tutti i volontari bianchi dal museo

Fonte dell'immagine: The Federalist Negli Stati Uniti, presso l’Art Institute of Chicago (AIC) si è aperto un caso che potrebbe essere d...