Una risposta al collega Alessandro D'Amore

Rispondo qui alla replica del collega Alessandro D'Amore al mio articolo "Muoia Sansone con tutti i Filistei". Il post di Alessandro può essere letto nel suo interessantissimo blog Le parole in archeologia.

Caro Alessandro, ho appena letto il tuo intervento, molto articolato, e che necessita, quindi, di una altrettanto compiuta risposta, anche per chiarire alcuni concetti che, soprattutto nel mio articolo pubblicato su ArcheoNews lo scorso autunno, citato nel mio precedente post, credo di aver in parte già focalizzato. 

Io non ho mai negato che possa esserci un impiego improprio del volontariato, e proprio perché il problema esiste, in occasione del IX Congresso Internazionale degli Amici dei Musei, tenutosi a Oaxaca, in Messico, dal 21 al 25 ottobre 1996 si evidenziò con particolare attenzione questo rischio: Evitare sovrapposizioni. Gli amici e i volontari possono trovare negli ambiti d’intervento non affidati al personale permanente del museo un terreno privilegiato in cui esercitare le loro iniziative e devono prestare attenzione onde evitare che le loro attività non si sovrappongano a quelle esercitate dal personale responsabile
Nel caso in cui questa clausola non venga rispettata, allora si è in pieno diritto di protestare e di esigere l’adempienza delle norme che regolano il lavoro dei volontari. 

Ora, il fatto che il MiBAC si sia appellato ai volontari per aiutare a tenere aperti i musei il 18 maggio, fornendo assistenza ai visitatori, significa invadere qualche specifico campo professionale? 
Si tratta di una funzione da archeologo o da storico dell’arte o da museologo o da antropologo? Non mi sembra. 

Il fatto, come tu dici, che nell’ultimo concorso MiBAC per assistenti alla vigilanza, il 90% dei partecipanti alla selezione fossero “archeologi specializzati, dottori di ricerca, parlanti fluentemente due o tre lingue”, non significa che quello sia diventato all’improvviso un lavoro da archeologo. 
E' la necessità di lavorare che costringe le persone non solo ad accontentarsi di fare i custodi nei musei, ma anche di fare i commessi nei supermercati o i venditori porta a porta, ma nessuno direbbe che quelli sono lavori che devono fare gli archeologi, e il fatto che il lavoro di custode si svolga in un museo non modifica questa realtà. In un museo si lavora anche nelle caffetterie o si fanno le pulizie o si gestisce il bookshop. Ma l'archeologia è un'altra cosa. 

Perciò, bisogna assolutamente evitare, innanzitutto, di creare confusione tra i vari ruoli, e i primi a farlo dobbiamo essere noi se non vogliamo che la nostra professione sia considerata inferiore ad altre che sono ritenute indispensabili per la società, e quindi molto più rispettate. 

Noi siamo archeologi, non custodi di museo, questo è il primo punto da mettere bene in chiaro. Quanto al significato del termine “volontario” rispetto all'altro termine “reclutato”, scusami, ma è una sottigliezza che non comprendo: i volontari devono essere informati della necessità del loro servizio e mi sembra che utilizzare i social networks sia un modo per raggiungere rapidamente un’ampia platea di persone. Niente di più, niente di meno.

L’unico appunto che si può fare al MiBAC è che, forse, impauriti dalla reazione dei professionisti al loro appello, non sono riusciti a mantenere la lucidità necessaria per fornire le corrette giustificazioni e hanno dato l’impressione di “annaspare” in acque agitate.

Il vostro errore, invece, a mio parere, è stato quello di organizzare una protesta che si fonda su argomentazioni sbagliate, perché in realtà la Notte dei Musei non c’entra proprio niente con i nostri problemi, che non sono certo legati all’impiego dei volontari in questa circostanza. 

C’è il rischio, come ho già detto, di creare confusione e contrapposizioni che non saranno comprese, perché è inutile che lo si neghi, ma se lanciamo un hashtag #no18maggio, significa che non vogliamo la Notte dei Musei perché il lavoro dei volontari abbiamo diritto di farlo noi! 

Questo è il messaggio che stiamo dando. E poi pretendiamo che la gente capisca che cos’è l’archeologia?

Perché non fare una protesta altrettanto vigorosa quando un concorso di dottorato si rivela non molto “trasparente” o quando in un concorso universitario per una docenza, la scelta cade sul candidato meno preparato? Perché si tace quando talvolta si viene trattati da “piccoli servitori” da alcuni docenti che sfruttano anche il nostro lavoro durante un dottorato? 
Io penso che tutto ciò sia molto grave, molto più grave di un volontario che viene chiamato a fare il custode in aiuto del personale strutturato. Eppure non si muovono le folle per questo tipo di ingiustizie che costringono tanti a lasciare la professione o a emigrare all’estero. 

Ma certo, se noi, dopo tanto studio e tanti sacrifici, ci accontentiamo di contendere il lavoro di custode nei musei ai volontari, allora vuol dire che forse noi stessi non abbiamo capito bene quali sono i reali problemi della professione. 

Caterina Pisu




"Muoia Sansone con tutti i Filistei"

L’amarezza per le situazioni critiche cui conduce una professione sfruttata e sottostimata come quella dell’archeologo o dello storico dell'arte non deve portare allo scontro con la cultura partecipativa: il caso della Notte dei Musei


di Caterina Pisu

In questo blog avevo già affrontato il tema del volontariato, per cui non ripeterò alcuni concetti fondamentali già espressi, che pure sono importanti per capire l’origine e l’importanza del volontariato come anche alcuni aspetti ambigui che riguardano non tanto il volontariato in sé quanto il suo utilizzo improprio, ma vi rimando, per questo, alla lettura del mio articolo.

L’argomento è diventato ancora più attuale da quando il MiBAC, dalla propria pagina Facebook,  tempo fa ha lanciato un appello alle organizzazioni di volontariato affinché si rendessero disponibili durante la Notte dei Musei 2013, che si svolgerà il prossimo 18 maggio.

La notizia ha provocato l’immediata reazione soprattutto di archeologi e storici dell’arte che hanno interpretato l’appello come l’ennesimo tentativo di sfruttare i professionisti della cultura.

In realtà l’apporto dei volontari in questa circostanza sarà unicamente di supporto al personale che, nei casi di afflusso di pubblico maggiore rispetto all’ordinario, potrebbe rivelarsi insufficiente, causando disagi soprattutto ai visitatori. 

Si tratta, quindi, di svolgere una semplice funzione di assistenza al pubblico, fornendo qualche spiegazione, così come fanno normalmente i custodi di un museo; niente che abbia a che fare con la professione dell’archeologo o dello storico dell’arte che, chiaramente, quando hanno la fortuna di lavorare, solitamente svolgono compiti completamente diversi e altamente specializzati.

Il primo aspetto negativo, dunque, è quello di ingenerare confusione nelle persone, le quali così accomuneranno la nostra professione ad altre che richiedono un minor grado di specializzazione. Certamente non tutti potranno capire come mai se gli operatori dei servizi di custodia non hanno avanzato vigorose proteste in questa circostanza, essendo i più diretti interessati all’impiego dei volontari nel loro ambito di lavoro, se ne siano preoccupati, invece, archeologi e storici dell’arte che normalmente svolgono compiti completamente diversi. Si tratta di una sorta di autogol, di una auto-dequalificazione del proprio ruolo professionale.

E allora da dove nasce la protesta? Certamente da un’onda emotiva. Il disagio dei professionisti della cultura è comprensibile: troppo spesso queste professioni sono sottostimate e sfruttate. Ma per mettere in atto una protesta che sia giustificata e, soprattutto, che sia chiara anche per il resto della comunità, non si poteva scegliere occasione peggiore. 

Innanzitutto, per quanto si sia cercato in vari modi di evitare di entrare in aperto contrasto con il mondo del volontariato, di fatto si vuole impedire che la cittadinanza possa compiere liberamente il proprio impegno civico, che è un diritto sancito dalla nostra Costituzione (Art. 2). Pertanto, in un periodo storico come l’attuale, in cui parole come “condivisione” e “partecipazione” sono sempre più sentiti come un’esigenza irrinunciabile, andare contro corrente è rischioso e attirerà antipatie verso la protesta di archeologi e storici dell’arte.

In secondo luogo, si è criticato perfino il modo con cui il MiBAC ha lanciato l’appello, cioè attraverso i social network. Questa affermazione sbalordisce ancora di più, soprattutto perché è pronunciata da chi, in genere, appartiene al “popolo del Web”, cioè da quelle generazioni che ormai sanno vivere con disinvoltura la comunicazione virtuale e ne conoscono i vantaggi in termini di veicolazione di contenuti e di notizie. Quali strumenti sono migliori e più democratici dei social network?

Il volontariato: in alcuni Paesi, come il Regno Unito, è uno "stile di vita" non in contrasto con il mondo professionale.

La sensazione è che questi professionisti, eterne vittime di una politica che ha sempre penalizzato le professioni culturali, vogliano trascinare nella “rovina” tutto il mondo della cultura. “Muoia Sansone con tutti i Filistei”, che importa se non ci saranno più eventi come la Notte dei Musei o altri simili, che hanno il pregio di coinvolgere tutti e di diffondere l’amore per il nostro patrimonio culturale?

Badate, non sono le motivazioni di base della protesta che sono sbagliate, ma lo è la circostanza! Su Twitter è stato lanciato l'hashtag #no18maggio che sarà interpretato come un veto ai volontari e come un tentativo di bloccare ogni forma di partecipazione attiva da parte della comunità.


Perché #no18maggio, ovvero “No alla Notte dei Musei”, un evento che si svolge in ogni parte del mondo con l’apporto prezioso dei volontari? Mi si spieghi che cosa c’entra questo con la causa degli archeologi e degli storici dell’arte. 



Ma attenzione, se non si sgombrerà il campo dagli equivoci e non si cercherà di essere più che convincenti, eliminando ogni rischio di confusione tra quelle che sono le reali funzioni di archeologi e storici dell’arte rispetto ai compiti di un volontario, sarà più difficile che in futuro i problemi della categoria possano essere compresi e condivisi dal resto della comunità.

I musei nell'era di Facebook e Twitter: istruzioni per l’uso


di Caterina Pisu




I musei moderni sono necessariamente obbligati a confrontarsi e ad adattarsi alla circolazione sempre più intensa di informazioni e di immagini attraverso il web? 
Un articolo di Yasmin Khan del giornale britannico The Guardian ha riportato il parere di alcuni esperti. Il dibattito è aperto e nel Regno Unito  ci si chiede a quale personaggio di Dickens si potrebbero paragonare, oggi, i musei britannici: a una Miss Havisham, imprigionata in un vecchio abito da sposa dentro una camera coperta di ragnatele, oppure all'imprenditore Fagin, preoccupato di aumentare la sua influenza sull’intera città? In Italia potremmo accostare una parte dei musei più tenacemente affezionati alla comunicazione tradizionale, a un Don Abbondio, timoroso di avventurarsi in situazioni più grandi di lui che metterebbero in pericolo le tranquille certezze del suo quotidiano.
Il The Guardian fa riferimento al convegno organizzato dall’Università di Leicester, "Museums in the Information Age: Evolution or Extinction?", svoltosi a Londra, presso il Science Museum, cui hanno partecipato alcuni esperti del settore museale. Si è cercato di capire se i musei stiano effettivamente rispondendo al progresso tecnologico nell’ambito della comunicazione o se, invece, siano in ritardo. Si è discusso soprattutto della necessità di adeguare i musei anche a nuove forme di fruizione dei beni culturali, grazie alla digitalizzazione delle immagini. A questo riguardo, Carole Souter, della Heritage Lottery Fund, ha affermato: - “I musei hanno bisogno di evolversi se vogliono mantenere un ruolo rilevante in questo particolare momento storico. Ciò vuol dire che devono anche essere attenti a quella parte di pubblico che non può venire fisicamente al museo, per esempio mettendo a disposizione online le collezioni esposte nel museo e dando la possibilità anche ai non esperti di partecipare alle discussioni postando i loro commenti”.
Per sua stessa ammissione, Ian Blatchford, direttore del Science Museum, afferma di avere sempre svolto il ruolo di “vecchio parruccone”, concordando sì con la necessità che il museo si orienti verso una evoluzione digitale, ma anche confutando la certezza che le mostre digitali possano realmente sostituirsi in modo efficace a quelle reali: - "La tecnologia digitale non dovrebbe in ogni caso modificare il senso di identità di un museo, le cui finalità e funzioni dovrebbero rimanere le stesse" - ha continuato Blatchford - "Molte delle attività tradizionali che si svolgono nei musei, come le borse di studio, la cura per le collezioni e le esposizioni museali, oggi sono più che mai rilevanti e si riflettono anche nella crescita del numero di visitatori."
In un'epoca in cui il flusso di informazioni è ridondante, l'autenticità e la fiducia hanno ancora più importanza per le persone.” - ha aggiunto – “Non dobbiamo scambiare quello che il pubblico vuole veramente con quello che noi pensiamo che dovrebbe volere.
D’altronde, “è nel DNA di un museo evolversi” - sostiene Ross Parry, docente presso la University of Leicester's School of Museum Studies. – “Il museo moderno ha inevitabilmente cambiato la sua struttura, alcuni aspetti legati alle sue stesse finalità e ai rapporti con il pubblico, così come l’impostazione intellettuale che dà senso alle sue collezioni. Probabilmente Robert Cotton, Hans Sloan, Henry Cole e Oppenheimer non riconoscerebbero più i musei che hanno contribuito a creare.”
Quest’ultima asserzione è assolutamente condivisibile: il museo è sempre stato lo specchio della società nel tempo; un museo ottocentesco non è più in grado di rappresentare le comunità dei nostri giorni. Ed essendo, la nostra, l’epoca della comunicazione globale, dovrebbe essere del tutto naturale, direi fisiologico, che i musei sentano la necessità di una maggiore interazione e capacità di dialogo con i visitatori e le comunità di riferimento, sebbene uno sguardo sereno e obiettivo non potrà non rilevare anche una enfatizzazione della questione, soprattutto in questi ultimi anni, sia in Europa che oltreoceano[1].
In parte, la necessità di allargare il proprio pubblico attraverso le tecnologie della web communication, potrà trovare le sue motivazioni anche nelle trasformazioni sociali degli ultimi decenni che hanno visto, e vedranno ancora di più in futuro, una considerevole contrazione demografica a fronte di un aumento del fenomeno dell’immigrazione nei Paesi industrializzati. E si è notato che questo fenomeno si accompagna all’instaurarsi di abitudini diverse, tra le quali un minor consumo culturale. Attraverso varie indagini condotte fino ad oggi, si calcola che entro 25 anni si avrà un collasso delle visite museali dell’ordine del 20% circa[2]. Anche l’impoverimento generale, dovuto alle gravi crisi finanziarie degli ultimi tempi, produrrà senza dubbio altri cambiamenti delle abitudini sociali che coinvolgeranno anche i musei.
Il bisogno di rinnovamento, quindi, è giustificato ed è realmente urgente trovare nuovi modelli di fruizione per salvare le tradizioni culturali, senza “mummificare” le nostre istituzioni museali ma anche senza sconvolgerne la naturale vocazione. Si è riconosciuta nella “rivoluzione del web 2.0” una delle “ciambelle di salvataggio” che potranno modernizzare rapidamente i musei, ma è necessario comprendere attraverso quali modalità ciò potrà avvenire. Il web 2.0 può essere anche un ambiente insidioso perché alla sua capacità di coinvolgere milioni di persone e di rendere la ricerca delle informazioni del tutto nuova rispetto a decenni fa (grazie alla possibilità di accedere simultaneamente a un gran numero di fonti, all’interscambio di dati e di contenuti, all’utilizzo degli strumenti del project management 2.0), si accompagna, simultaneamente, il rischio di autoreferenzialità o peggio di “protagonismo”, o  ancora il pericolo di restare affascinati da «strategie persuasive» prodotte dall’informazione che fa «rumore»[3]. E gli esempi più recenti ci vengono, per esempio, dalla politica. Grazie al web sono nati movimenti politici, sono scoppiate sommosse (il pensiero va alla primavera araba), e sempre più spesso la “piazza virtuale” si sostituisce agli ambiti istituzionali tradizionalmente vocati al dibattito politico. Ma possiamo dire che si tratta realmente di trasformazioni profonde del sistema politico o si è semplicemente sostituito il vecchio slogan che animava le manifestazioni degli anni Settanta e Ottanta con i più moderni “tweets”? Gli slogan, si sa, entusiasmano le folle, riescono a muoverle all’unisono sia che si tratti di compiere una rivoluzione sia che si debba semplicemente partecipare ad un flash mob; ma oltre questo ci deve essere qualcosa di più: contenuti, proposte, progetti. Altrimenti si rischia che gli slogan restino solo parole, e che le rivoluzioni si trasformino non in un cambiamento ma soltanto in uno spostamento di poteri da una forma di autorità tradizionale ad un’altra che è del tutto simile alla precedente se non peggiore.
In ambito culturale si può affermare che il rischio è più o meno simile. L’autoreferenzialità è un pericolo costante e può avere come conseguenza la diffusione di contenuti non corretti, ma ugualmente convalidati dall’approvazione del popolo del web. L’istituzione museale può svolgere senza dubbio un ruolo importante nella verifica dei contenuti, tanto più efficace quanto più è consolidata la sua autorevolezza negli specifici settori di specializzazione. Questo ruolo del museo non è inconciliabile con il sistema di relazioni che questo intreccia con il proprio contesto di riferimento, tenendo conto, appunto, dell’importanza sempre crescente che ha assunto il visitatore del museo nella creazione e diffusione di contributi “dal basso” che lo hanno reso «protagonista attivo e partecipe ai processi di valorizzazione del museo, finanche nella fase della loro progettazione[4]». La qualità dell’informazione può certamente coesistere, anzi è opportuno che lo sia, con la libera partecipazione della collettività. Questa operazione, così come altre legate alla comunicazione museale, non può svolgersi in modo “astratto” ma necessita di figure professionali specifiche che sono, appunto, i comunicatori museali, e che riassumono, innanzitutto, quelle che sono le competenze proprie di un esperto di comunicazione, ma non solo. Altrettanta importanza è data, per esempio, alla conoscenza delle dinamiche turistiche. Ma dal punto di vista della formazione, c’è ancora una separazione tra le scienze del museo e gli «insegnamenti relativi al turismo ed ai cambiamenti in atto nel settore, in cui è facilmente collocabile anche una ridefinizione del ruolo e delle funzione del museo stesso. Rispetto alla tradizionale idea di “luogo di conservazione” ci si sta avvicinando a quella di “strumento di comunicazione”, rivolto ad un pubblico di soggetti sempre più ampio» [5]. Il cambiamento dovrà partire, dunque, anche da una riprogettazione della formazione universitaria.
I rischi nel web di cui si è trattato finora non sono solo quelli legati a ciò che viene scritto ma riguardano anche l’uso delle immagini e i diritti derivanti dalla proprietà intellettuale. Quando la legge pone dei limiti alla libera circolazione di questi contenuti, in qualche modo va ad imbrigliare la libertà di Internet e il diritto di accedere gratuitamente alle informazioni. Un superamento di questa barriera alla libera fruizione dei dati, è rappresentata dagli Open Data, cioè i dati prodotti da vari enti, resi accessibili a tutti in formato aperto, tra i quali sono incluse anche informazioni finora rimaste inaccessibili al pubblico, come i dati provenienti da musei, librerie e archivi[6]. Tuttavia non sempre l’accesso agli Open Data è garantito in forma totale e non di rado si riscontrano reticenze o restrizioni alla diffusione dei dati. Talvolta ci possono essere ragioni economiche dietro questi modi di agire, anche quando si tratta di immagini fotografiche autoprodotte. In alcuni musei, per esempio, il divieto di fotografare riguarda sia i turisti che gli studiosi e gli studenti, per cui per motivi di studio e di ricerca si è costretti a sborsare svariate decine di euro per ottenere un file di archivio e molti di più per le foto ex novo[7], tariffe di gran lunga superiori a quelle richieste da altri musei europei. Si tratta di restrizioni che certamente dovranno essere modificate o del tutto abolite. Se alcuni musei consentono lo scatto di fotografie e non sono stati riscontrati problemi per la regolare fruizione della visita, non si vedono ragioni perché il consenso non possa essere esteso a tutti. La stessa crescente diffusione di smartphone, tablet e macchine fotografiche digitali, sono un invito a fotografare e condividere le immagini; continuare a imporre divieti che potevano forse ancora essere accettati dieci anni fa, è anacronistico e autolesionistico per i nostri musei.



[1] V. Falletti, “Ripensare il museo” in V. Falletti, M. Maggi, “I musei”, Il Mulino 2012, p. 60
[2] M. Maggi, “Le sfide” ” in V. Falletti, M. Maggi, “I musei”, Il Mulino 2012, p. 185
[3]Autenticità e verità nella cultura dei social network”, L’Osservatore Romano, 25 gennaio 2013)
[4] L. Sollima, “Il museo in ascolto. Nuove strategie di comunicazione per i musei statali”, Rubbettino 2012, p. 25
[5]Rapporto di analisi comparata basata su peer review”, Rapporto di ricerca dell’Università La Sapienza di Roma, 30/07/2011, p. 3. La ricerca ha considerato in che modo i musei di quattro paesi  (Italia, Bulgaria, Romania, Regno Unito) si stanno preparando ad affrontare le trasformazioni che coinvolgono la loro stessa missione: « le istituzioni museali pubbliche e private – e soprattutto quelle di dimensioni medie e piccole – paiono risentire dell’impatto della congiuntura economica sfavorevole nel momento stesso in cui viene a definirsi – anche in modo problematico – una nuova funzione del museo: accanto a quella tradizionale di tutela, conservazione ed esposizione degli oggetti, si sta infatti sempre più facendo strada la concezione del museo anche come spazio pubblico, luogo di espressione dell’identità e di fruizione culturale, polo attrattivo per un vasto pubblico. In sintesi, è in atto un processo per superare la dicotomia tra conservazione, da un lato, e dall’altro valorizzazione dei patrimoni».
[6] Tra i progetti di Open Data che riguardano più direttamente le istituzioni culturali, si ricorda, per esempio, Europeana.
[7]Guardare ma non scattare”, dal blog di Michele Smargiassi, Fotocrazia (http://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it/2011/02/08/guardare-ma-non-scattare/)

I MOOCs applicati ai musei: le nuove frontiere della fruizione museale

di Caterina Pisu



Leggendo un post di David Greenfield dal suo blog View from a Blog, mi sono molto interessata all’applicazione degli ultimi sviluppi dell’e-learning all’ambito museale. David Greenfield inizia con la considerazione che le visite ai musei sono sempre un’esperienza molto coinvolgente. Che si tratti della visita di una mostra temporanea o di una galleria, che si segua un percorso proposto dai curatori o dagli operatori didattici, o che si compia autonomamente, costruendo, in tal modo, un nostro personalissimo modo di vedere quella esposizione, in ogni caso ne trarremo sempre grandi vantaggi. Quando si ha la possibilità di vedere i luoghi e gli oggetti nelle proprie reali dimensioni, dal vivo, potendo osservare materiali e dettagli, l’intelletto e la curiosità dei visitatori sono catturati e affascinati molto più che dall’osservazione sul web di immagini ridimensionate. In ogni caso, per facilitare l’esperienza di visita, i professionisti museali cercano di progettare e ottimizzare i siti web anche per la realizzazione di pre-visite, che aiuteranno poi la visita reale, offrendo dei punti di riferimento e delle conoscenze preliminari.
Ma non tutti potranno prendere parte alla visita reale: costi e distanze possono creare ostacoli difficili da superare a molti potenziali visitatori dei musei. Questo rappresenta uno dei punti critici da risolvere.
Un aiuto può venire dai recenti progressi del web: il continuo sviluppo e l'integrazione dei media digitali, ovvero l’uso del web e dei social network, possono fornire alcune soluzioni interessanti e innovative a questo problema o almeno possono cercare di ricreare alcune delle condizioni che si verificano durante lo svolgimento di una visita guidata. Durante queste visite, per esempio, coloro che vi partecipano creano delle comunità temporanee nelle quali viene condivisa la prospettiva di interpretazione delle opere o, più in generale, dell’allestimento, così come proposto dalla guida, aggiungendo, però, anche il proprio punto di vista o sollevando questioni. Si crea, così, un dialogo tra la guida e i visitatori che consente lo scambio di informazioni, osservazioni e la ricerca di risposte alle proprie curiosità.
La domanda è: può essere attuato il trasferimento di un tipo di esperienza analogo anche alle visite on-line? Si è accennato al fatto che alcuni musei stanno già sviluppando strumenti web che funzionano come pre-visita. Sebbene questo sia un importante servizio messo a disposizione dei migliori siti web dei musei, bisogna dire che in realtà questo non supera tutte le limitazioni alla fruizione del museo che penalizzano i potenziali visitatori impossibilitati a raggiungere fisicamente il museo.
La proposta, dunque, è quella di utilizzare le possibilità offerte dai MOOCs (Massive Open On-line Course) che consentono la partecipazione interattiva su larga scala e l’open access attraverso il web. In pratica i MOOCs sono capaci di integrare i punti di forza dei social media (web 2.0) e del web semantico (3.0).
Per comprenderne meglio l’utilizzo, dobbiamo collocare questo strumento nell’ambito dell’e-learning, di cui il MOOC è l’ultima frontiera che si traduce, appunto in “massive open online course”, cioè corsi online gratuiti e aperti a tutti. Da poco tempo è possibile accedere a questi corsi gratuiti, online, da molte università in tutto il mondo. Su You Tube è disponibile un video che spiega molto chiaramente il funzionamento dei MOOCs:


In Italia, l’Università La Sapienza di Roma è il primo ateneo ad essere entrato nel progetto Coursera, lo spin off universitario nato nell’aprile del 2012 su iniziativa di due docenti dell’Università di Stanford, Daphne Koller e Andrew Ng, con l’obiettivo di creare uno spazio sul web dove chiunque possa partecipare a corsi on-line gratuiti su diverse materie. 
Rispetto a corsi online di tipo tradizionale, un MOOC si basa sul presupposto che il grande numero di partecipanti costituisca il punto di partenza per lo sviluppo di elevate connessioni e interazioni, elemento fondamentale per la divulgazione dell’apprendimento. Inoltre i MOOCs, che sono gratuiti, richiedono una partecipazione attiva nella produzione e nel repackaging di contenuti. E questo richiama moltissimo il funzionamento degli attuali social media.

E i musei? In ambito museale si possono utilizzare le potenzialità del MOOC per creare un ponte tra le esperienze reali e quelle on-line: in tal senso, esso può essere usato come sito stand-alone (cioè capace di funzionare in modo indipendente) per emulare l’esperienza di una visita guidata. I visitatori connessi on-line avrebbero la possibilità di esplorare, condividere, interpretare e creare dei contenuti all'interno di una comunità di persone con i loro stessi interessi.
Il MOOC può anche essere utilizzato come piattaforma per la creazione di mostre virtuali che, oltre agli evidenti vantaggi economici, permetterebbe, per esempio, di mostrare quelle opere che sono conservate nei magazzini, offrendo ai visitatori ulteriori approfondimenti della produzione di un artista, di uno stile o di un determinato periodo. Si possono creare, inoltre, mostre di opere d’arte o manufatti che sono disseminati in tanti musei, in varie parti del mondo, che altrimenti difficilmente potrebbero essere viste simultaneamente. Si possono anche formare dei sotto-gruppi, all’interno di una comunità, per coloro che sono interessati a discutere argomenti ancora più specifici, per esempio determinate opere o movimenti artistici, storici, ecc. ecc. Le possibilità di utilizzo sono veramente illimitate.
Forse la visita di una mostra on-line potrebbe non essere così appagante come l'esperienza reale, ma le funzioni del MOOC, per mezzo delle connessioni e delle interazioni su cui si basa il sistema, sono in grado di ricreare ciò che avviene durante una visita reale, quando si formano comunità temporanee tra le persone che vi partecipano; e questo è il primo passo per rendere la visita on-line più vicina a quella on-site.
Mi viene in mente l’esempio citato da Umberto Eco nel suo articolo “Il museo nel terzo millennio”: l’idea di un museo trasportabile, fatto non di opere originali, ma di immagini proiettate dei capolavori dei più importanti musei del mondo, per permettere a tutti di vedere ciò che probabilmente non potranno mai raggiungere fisicamente. Un’idea concepita dall’architetto Konrad Wachsmann, condivisa da Eco, per il quale il museo del terzo millennio sarà “sempre inedito, sempre capace di offrirmi nuove sorprese”. E forse questo è l’obiettivo che si potrà raggiungere con le nuove tecnologie, grazie al superamento delle distanze e alla possibilità di mettere in connessione tra loro milioni di persone.


"Se occhio non mira, cuor non sospira"


Ma alcuni turisti in visita al MET si sono accorti, invece, che non avrebbero dovuto pagare il biglietto d'ingresso: intentata una causa contro il famoso museo di New York


di Caterina Pisu



E’ di questi giorni la notizia che il Metropolitan Museum of Art di New York è stato citato in giudizio, accusato di aver ingannato i visitatori: sembra che la maggior parte di essi non avesse idea di poter visitare gratuitamente il museo e che la quota “consigliata” di $ 25 (prima del 2011 era di soli $ 5)  fosse facoltativa.
La causa, secondo l’agenzia di stampa Reuters, sarebbe stata intentata da due turisti cechi e da un associato del museo, i quali incolpano il MET di aver fatto ricorso a informazioni ingannevoli e ad altri metodi per far credere che i visitatori dovessero pagare per poter entrare. Un reclamo era stato presentato anche alla fine dello scorso anno da due associati del museo che sostenevano che la segnaletica del museo è fuorviante per il pubblico.
Il prezzo di 25 dollari “consigliato” per l’ingresso si applica soltanto agli adulti, mentre per gli anziani sopra i 67 anni è di $ 17. I bambini sotto i 12 anni possono entrare gratuitamente se accompagnati da un adulto.
Il museo si è giustificato affermando che con il bilancio in perdita è difficile fare fronte alle continue sfide imposte dal momento attuale, anche a causa della notevole diminuzione del supporto finora assicurato dalle istituzioni pubbliche.
Negli Stati Uniti, i prezzi d'ingresso ai musei d'arte variano grandemente da un museo all’altro, ma in ogni caso sono quasi sempre molto più alti, per esempio, rispetto al prezzo di un biglietto del cinema. Insomma, in qualche modo un lusso per pochi. In alcuni musei, dove non c’è ingresso gratuito, come per esempio al Museum of Modern Art di New York (MoMA), è richiesto un biglietto d’ingresso di $ 25, mentre il Los Angeles County Museum of Art (LACMA), ha fissato un biglietto di $ 15 per gli adulti.
In alcuni casi, tuttavia, bisogna anche rilevare il passaggio dall’ingresso a pagamento all’ingresso gratuito: per esempio al Dallas Museum of Art, che prima chiedeva un biglietto d’ingresso di $ 10 e ora ha aperto le sue porte a tutti.

Grazie a Martin G. Conde, autore del blog Rome -The Imperial Fora, per avermi segnalato la notizia.


LE FAMIGLIE BRITANNICHE PREMIANO I LORO MUSEI PREFERITI


Torna anche nel 2013 il Telegraph Family Friendly Museum Award




di Caterina Pisu


Anche quest’anno il giornale britannico The Telegraph propone il Premio Telegraph Family Friendly Museum, pensato per avvicinare le famiglie ai musei. Saranno premiati quei musei, scelti dalle famiglie, che avranno dimostrato di essere capaci di affascinare i bambini di tutte le età, ma non solo,  anche sulla base delle attività proposte, della capacità di saper accogliere, dell’originalità. Dopo le segnalazioni dei lettori, una commissione formata da esperti del settore museale, del Telegraph e di Kids in Museums, effettuerà una pre-selezione, ma saranno le famiglie, alla fine, a scegliere il vincitore.
E’ possibile partecipare entro il 10 maggio prossimo. Tutte le informazioni sono reperibili  in questa pagina: 

Il testimonial del Premio, Dan Snow, presentatore televisivo anglo-canadese, conduttore di programmi di storia per la BBC, ha espresso il suo grande interesse per una iniziativa che finalmente premia quei musei e quelle gallerie che sono attenti a ciò che le famiglie vogliono davvero.  

Dan Snow

E detto da Snow, che oltre ad essere un esperto è sempre stato un appassionato di musei fin da bambino, e che sta già educando sua figlia ad amarli, è una bella promozione. Quando era piccolo – racconta Snow – i musei non erano luoghi molto amati dai più piccoli, ma ora sono davvero cambiati:  le tecnologie, per esempio, sono di grande aiuto e i bambini possono imparare e divertirsi nello stesso tempo.
Lo scorso anno fu premiato un piccolo museo, il Brixham Heritage Museum, gestito da uno staff  ridotto e part-time, con l’aiuto di ben 65 volontari e con un flusso di circa 9.000 visitatori l’anno (http://museumsnewspaper.blogspot.it/2012/04/un-piccolo-museo-per-un-grande-premio.html), a dimostrazione che non c’è bisogno di essere famosi e importanti per essere graditi alle famiglie e al pubblico in generale. Ciò che conta è, come sempre, la capacità di accogliere, di riuscire a coinvolgere la comunità nella gestione del museo (65 volontari non sono pochi!) e, ovviamente, avere alla base un buon progetto culturale.
Lo scrissi anche nel mio articolo dello scorso anno, ma lo ripeto: sarebbe bello se anche in Italia qualcuno volesse promuovere un premio simile, dedicato ai musei e alle famiglie. Ne vogliamo riparlare?

Il caso dell’Art Institute of Chicago: fuori tutti i volontari bianchi dal museo

Fonte dell'immagine: The Federalist Negli Stati Uniti, presso l’Art Institute of Chicago (AIC) si è aperto un caso che potrebbe essere d...