ICOM: Giornata Internazionale dei Musei 2011

La Giornata internazionale dei musei, in programma il 18 maggio, quest'anno sarà dedicata al tema Musei e memoria, in coincidenza con il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, con eventi, inizative e convegni in tutta Italia. Parteciperanno all’iniziativa anche l’UNESCO Memory of the World Programme, il Coordinating Council of Audiovisual Archives Associations (CCAAA), l’International Council of Archives (ICA), l’International Council of Monuments and Sites (ICOMOS) e l’International Federation of Library Association (IFLA). Alcuni approfondimenti saranno dedicati al patrimonio culturale del Continente africano. La Giornata Internazionale dei Musei si coniugherà, inoltre, come già nel 2010, con la “Notte dei Musei d’Europa”.

MUSEI “A LUCI ROSSE”: È QUESTA LA SOLUZIONE?

Attrarre visitatori ad ogni costo sembra la priorità dei musei italiani in questo momento: l’ultima provocazione di Vittorio Sgarbi e il caso del Museo Madre.

Sempre più spesso, sia sulle riviste specializzate che sui quotidiani, si parla dei musei in relazione alla loro capacità di attrarre visitatori. Ed ecco che spuntano varie “hit parade”, statistiche, balletti di numeri. Il conteggio dei visitatori è diventato una notizia avvincente anche per i media da quando nell’ambito della cultura si è fatta strada la pericolosa teoria che i musei debbano essere assolutamente produttivi in termini monetari, pena la soppressione dei musei stessi. E’ notizia della scorsa estate, per esempio, la vicenda del Museo Madre di Napoli (Museo d’Arte Contemporanea Donna Regina), probabilmente il miglior museo di arte contemporanea del Sud Italia, che rischia la chiusura per debiti. E non è l’unico caso: lo stesso destino potrebbero avere il Museo della Liberazione di Via Tasso a Roma, la Città della Scienza di Napoli, il Museo archeologico Ridola di Matera, il Museo della Scuola di Torino e tanti altri.
Anche il mantenimento di monumenti ed aree archeologiche sembra ormai una missione impossibile: sono a rischio Pompei, la Domus Aurea, il villaggio preistorico di Nola, già in parte sommerso a causa di una falda acquifera affiorante. Questi sono solo i casi più eclatanti, ma da ogni parte sale l’allarme per le condizioni in cui è tenuto l’intero patrimonio culturale italiano, troppo spesso abbandonato a se stesso: forse non a tutti è noto che in provincia di Grosseto le antichissime vie cave stanno franando a causa della crescita delle radici degli alberi o che l’area archeologica di S. Maria del Mare di Stalettì (CZ), considerata da tutti gli studiosi del settore a livello nazionale ed internazionale, tra le più importanti per la storia dell’Alto medioevo italiano e del periodo bizantino in Calabria, è rimasta per anni in condizioni di estremo degrado ed ha subito gravi danni a causa del crollo di una delle torri di fiancheggiamento dell’entrata principale al castrum. Soltanto da circa un anno si sta provvedendo alla ristrutturazione dell’area e sono ricominciati gli scavi archeologici.
I finanziamenti pubblici alla cultura sono stati notevolmente ridotti e ciò sta causando non pochi problemi ovunque. A Roma, l'assessore alle Politiche culturali del Comune, Umberto Croppi, ha recentemente dichiarato che con il taglio del 20% dei fondi destinati all’organizzazione delle mostre, si dovranno chiudere molti musei. Con queste premesse, secondo Croppi, già a fine anno si verificherà una catastrofe, cioè la paralisi totale di uno dei settori produttivi più importanti di Roma e una perdita di indotto per la città di decine di milioni di euro all'anno che causerà gravi danni anche sul fronte dell'occupazione.
Per quale motivo i musei sono considerati ora, dopo decenni di illustre attività, un investimento in perdita, un peso per l’intera comunità che li ospita, un fardello pesante per gli enti locali e per lo Stato? Sicuramente un ruolo fondamentale nella genesi di questo stato di cose è stata l’applicazione delle teorie economiche all’ambito culturale. I manager ambiscono soprattutto al successo dei numeri, ma trasformare un museo in un’azienda porta con sé molti rischi. “Dirigere una fabbrica importante o i musei italiani non è la stessa cosa” ha dichiarato  Salvatore Settis. Ora è chiaro che coloro che pensano di applicare in modo irriflessivo le tecniche del modern management a tutti i settori dell’agire umano, dimostrano di conoscere poco i presupposti su cui si basa la stessa filosofia dell’economia che, per prima, riconosce la difficoltà di applicare senza distinzione un metodo univoco a tutti gli ambiti produttivi, ben sapendo che riforme sbagliate sono sempre suggerite da teorie sbagliate o da teorie giuste applicate erroneamente, soprattutto quando non si dispone di adeguati modelli di previsione, e chiaramente il comportamento umano non è sempre prevedibile. Un metodo che si ritiene essere efficace quando si fabbricano oggetti o si vendono beni di consumo può non esserlo altrettanto quando tocchiamo le sfere dell’emotività. L’economista Alberto Guala, nel suo volume sulla Filosofia dell’Economia (2006), afferma che non siamo in grado di “combinare gli effetti della religiosità con la ricerca del profitto”. Lo stesso si può dire, allora, per la cultura che, al pari della religione, è espressione delle più profonde esigenze dell’animo umano.
Si riversano tutte le colpe dell’attuale crisi sull’incapacità dei gestori di saper attrarre  i visitatori e di rendere i musei “appetibili” ad un più vasto pubblico. Ed ecco che allora si escogitano le trovate più strane e le campagne pubblicitarie più originali: già l’assessore Croppi, lo scorso luglio, vista l’impossibilità di allestire mostre nei musei romani, aveva lanciato la provocazione: "se al Macro non si possono fare mostre possiamo sempre portarci un torneo di bridge, oppure portare le slot machines  a La Pelanda". L’ultima trovata, poi, e la più clamorosa, è stata quella escogitata dal neo Soprintendente per il Polo Museale Veneziano, Vittorio Sgarbi, il quale, in occasione dell’inaugurazione della mostra del Giorgione allestita a Palazzo Grimani lo scorso 29 agosto, ha spiazzato tutti proponendo l’allestimento di tableaux vivants  con l‘apporto di una nota porno-star. La provocazione di Sgarbi è riuscita, se non altro, a farci capire ancora meglio quanto ci si impegni poco nella ricerca delle vere cause della crisi dei musei, soffermandoci soltanto sui numeri, cioè sulla quantità di visitatori che li frequentano. Non si può contestare che in questi anni ci siano stati casi di cattiva amministrazione e che, pertanto, sia di prioritaria importanza che nell’ambito della gestione diretta del patrimonio culturale si adottino modelli organizzativi flessibili che diano il più ampio e doveroso spazio alla meritocrazia. L’incarico di direttore del museo, per esempio, non dovrebbe essere ricoperto a tempo indeterminato ma dovrebbe essere finalizzato allo svolgimento di progetti, che potranno essere rinnovabili ma anche revocabili. Ciò, in parte, già avviene nell’ambito degli enti locali, nei casi in cui sia necessario affidare a degli specialisti determinate funzioni, come l’allestimento museale, la revisione dei materiali, ecc.; più raramente, invece, si ricorre al contratto a tempo determinato anche per incarichi di direzione globale del museo. La recente riforma della pubblica amministrazione del Ministro Renato Brunetta prevede che, in base all’art. 110 del d. Lgs. 267/2000, lacopertura dei posti di responsabili dei servizi o degli uffici, di qualifiche dirigenziali o di alta specializzazione, possa avvenire mediante contratto a tempo determinato di diritto pubblico o, eccezionalmente e con deliberazione motivata, di diritto privato, fermi restando i requisiti richiesti dalla qualifica da ricoprire”. Sicuramente, se il dirigente verrà messo in condizione di dover agire con la massima efficienza entro un arco temporale circoscritto (avendo gli strumenti necessari per poterlo fare) e se dovrà rendere conto del lavoro svolto, portando risultati concreti, il sistema museale non potrà che guadagnarne in termini di funzionalità e di ottimizzazione delle risorse disponibili. Ogni tipo di soluzione, in ogni caso, non può prescindere dalla consapevolezza che il patrimonio culturale italiano, unico al mondo per importanza e vastità, è un bene comune e ha bisogno di risorse che devono essere garantite dallo Stato senza alcun pretesto per evitarlo. Incolpare unicamente la cattiva gestione dei musei, incapaci di sostentarsi autonomamente, sembra piuttosto uno stratagemma per dirottare risorse da investire poi in settori con una migliore redditività. E’ assolutamente necessaria, invece, una maggiore consapevolezza da parte delle istituzioni e dei cittadini riguardo l’urgenza di salvaguardare ogni più piccola testimonianza dell’arte e della storia del nostro Paese, senza cercare profitti ad ogni costo, ma unicamente perché essi sono la nostra ricchezza e la nostra identità, e dovrebbe essere questo l’unico e più ragionevole motivo di investimento concreto. E’ necessario che la scuola e le istituzioni museali collaborino affinché questi concetti entrino a far parte del bagaglio di conoscenze dei più giovani, ed è altrettanto importante che i musei si aprano alle famiglie, che svolgano un ruolo di mediazione culturale e che siano perfettamente assimilati nel tessuto sociale, soprattutto quando appartengono alle piccole comunità.
Diverso è il caso dei grandi musei che non necessariamente devono dipendere totalmente dal comune che li ospita o dalle sovvenzioni dello Stato, potendo contare su un numero maggiore di visitatori, anche se è d’obbligo precisare che secondo una stima della UIL, ben il 50% di coloro che visitano i musei italiani hanno diritto ad entrare gratuitamente. E’ una percentuale altissima, composta per lo più di over 65, minori, militari, giornalisti, insegnanti, studenti universitari (ma inspiegabilmente non di laureati in archeologia e in storia dell’arte!): complessivamente sono circa 18 milioni.
Gianfranco Cerasoli, segretario generale UIL per i beni culturali, ha sottolineato che “per tenere aperti i musei 11 ore al giorno senza pause, come ora, occorrono almeno 12 mila persone e oggi ne abbiamo in servizio meno di 8 mila. Al Prado di Madrid e al Louvre di Parigi non ci sono gratuità, ma solo riduzioni. E poi, di fatto, in molti dei nostri musei la prenotazione è obbligatoria per tutti. Succede a Pompei, alla Galleria Borghese e altrove. Uno o due euro versati, anche dagli esenti, per lo più a società concessionarie private, come Pierreci, Gebart, Civita. Nulla di questi denari però arriva al Mibac. E se non si interviene in qualche modo, il rischio è la paralisi per tutti i musei”. In pratica, chi ha diritto ad entrare gratuitamente in molti casi deve comunque versare almeno un euro per la prenotazione obbligatoria, soltanto che questi incassi non entrano nelle casse dei musei ma vengono incamerati dalle società che si occupano di registrare le prenotazioni. La proposta della Uil, pertanto, sarebbe quella di abolire gli ingressi totalmente gratuiti e di far versare un simbolico euro anche agli esenti: con i proventi sarebbe così possibile finanziare progetti per rilanciare i musei stessi o per assumere nuovo personale. Un’idea interessante che bisognerebbe prendere in considerazione e forse questo potrebbe essere davvero il primo passo per un serio piano di risanamento economico del settore museale italiano, evitando di ricorrere ad altri curiosi escamotages che giochino a trasformare i musei in piccole “Las Vegas” o in théâtre des variétés.

Caterina Pisu (ArcheoNews, ottobre 2010)

I mecenati in soccorso della cultura

In Italia il mecenatismo è un fenomeno in crescita da una decina d’anni, ma è diventato un tema di scottante attualità soprattutto in questi ultimi tempi, alla luce dei continui tagli al settore della cultura: a questo punto sembra inevitabile il ricorso sempre più massiccio a queste nuove fonti di sostegno economico privato. Quale potrà essere, allora, lo scenario futuro per la cultura italiana? Innanzi tutto è necessario fare una distinzione tra le elargizioni di mecenati che decidono di finanziare l’arte e la cultura per motivi puramente filantropici, e gli investimenti di privati (soprattutto aziende) allo scopo di ottenere degli utili. E’ quest’ultimo aspetto, soprattutto, che desta qualche perplessità. Da una parte, infatti, c’è chi teme che l’ingerenza dei privati possa snaturare la missione e l’essenza stessa della cultura, dall’altra si arriva all’esatto opposto, ritenendo che in determinate circostanze sia giusto affidare interamente ai privati la gestione del patrimonio culturale per alleggerire lo Stato da un impegno economico troppo oneroso.
La prima posizione è ben rappresentata dal noto studioso e direttore della Scuola Normale di Pisa, Salvatore Settis, il quale, soprattutto nel sul libro “Italia S.p.A. - L’assalto al patrimonio culturale”, ha denunciato le recenti norme che hanno offerto ai privati la gestione di parchi e musei e reso possibile la cessione del patrimonio dello Stato italiano. La seconda posizione è quella espressa, fra gli altri, da Confindustria. Ci soffermeremo in particolare su quest’ultimo punto di vista per valutarne l’eventuale apporto di novità.
Le proposte di Confindustria
Recentemente, Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria, ha lanciato alcune proposte in materia di tutela, valorizzazione  e messa a reddito del patrimonio culturale, artistico e museale italiano. In primo luogo ha ribadito, e su questo punto si può senz’altro concordare, che le “le risorse pubbliche non vanno più date a pioggia alle centinaia di soggetti pubblici protagonisti dell’offerta culturale inefficiente. Bisogna spostare l’allocazione delle risorse spostandole su criteri che tengano conto della domanda, e premino la migliore offerta”. In particolare la Marcegaglia si riferisce ai processi di matching grants, cioè a quei co-finanziamenti che sono commisurati ad una percentuale della spesa sostenuta a livello pubblico locale e che intervengono solo quando il contributo pubblico affianca quello privato, purché sia stato possibile reperirlo in maniera ad esso equivalente. Si tratta di un ausilio finanziario intelligente, perché non solo promuove la ricerca di risorse private, ma nello stesso tempo responsabilizza gli enti, conservando la loro partecipazione diretta ai progetti di fund raising. La seconda proposta della Marcegaglia riguarda in modo specifico i musei. Tenendo conto dell’alto numero di musei presenti sul territorio italiano e delle difficoltà che lo Stato incontra nel loro mantenimento, si ritiene che possa essere utile “affidare a privati in totale concessione sperimentale alcuni musei italiani, superando i limiti molto stretti posti dall’attuale ordinamento che affida ai privati solo la gestione di alcuni servizi”. A questo punto, quindi, i privati avrebbero anche la possibilità di gestire l’organizzazione del personale, per esempio, ma anche di intervenire sui progetti di didattica museale e sulla gestione delle collezioni, compresi i prestiti, le mostre, etc., ed è questo il punto dolente che lascia aperti molti interrogativi e su cui si è discusso a lungo in questi ultimi anni. La terza proposta della Marcegaglia si basa sulla possibilità di “estendere alle sponsorship delle imprese private in progetti culturali la disciplina del credito d’imposta per gli investimenti in ricerca e sviluppo tecnologico (…) Serve una forte agevolazione fiscale per il rapporto di sponsorizzazione, che viene incredibilmente ristretto dall’articolo 120 del Codice dei Beni Culturali. E’ la sponsorizzazione che consente alle imprese un pieno e legittimo ritorno dell’investimento, a vantaggio del proprio marchio, immagine  e prodotto, e realizza altresì un più pieno coinvolgimento del privato nelle modalità di fruizione del patrimonio culturale”. Infine, sempre in materia fiscale, la quarta proposta della Marcegaglia è relativa alla possibilità di elevare dal 19% attuale ad almeno il 30% l’aliquota da portare in detrazione fiscale quando le erogazioni culturali siano effettuate da persone fisiche”.
Il caso della Francia
Di vantaggi fiscali si è discusso anche nell’ambito di Florens 2010, il Forum sui beni culturali di Firenze, conclusosi lo scorso 20 novembre: sebbene sia stato ancora una volta evidenziato il primato della cultura italiana, sono emersi, però, anche i molti problemi del Paese. E questo, nonostante la cultura sia una potenziale, ottima fonte di reddito che gioverebbe non poco all’economia italiana in generale. Una recente ricerca condotta dallo Studio Ambrosetti, infatti, ha rimarcato che 100 euro di Prodotto interno lordo generati nei comparti creativi si moltiplicano in 249 euro di Pil totale e che 3 occupati attivati nel settore culturale determinano 2 occupati al fuori del settore. Nonostante ciò la nostra cultura non è mai stata in condizioni economiche più difficili: mancano totalmente i fondi, i musei e i teatri chiudono o rischiano la chiusura. Si è portato ad esempio, allora, il caso della Francia, dove la legge sui mecenats introdotta nel 2003 ha sviluppato un sistema di fundraising privato di successo, tanto che il ministro Frédéric Mitterrand molto probabilmente eleverà ulteriormente la soglia di deduzione fiscale delle persone fisiche, nel caso di donazioni alla cultura, alla educazione e alle organizzazioni umanitarie, portandola ben al 60% dell' imposta.
Le attuali agevolazioni fiscali
Attualmente in Italia, come già accennato, è prevista una detrazione Irpef del 19% sulle erogazioni liberali in denaro destinate a enti pubblici, fondazioni, associazioni senza scopo di lucro legalmente riconosciute, etc., che svolgano attività in campo artistico e culturale di studio, ricerca, documentazione, catalogazione, acquisto, manutenzione, protezione e restauro di beni culturali, organizzazione di mostre in Italia e all’estero, pubblicazioni, etc.. Le imprese, invece, posso dedurre integralmente dal proprio reddito i contributi destinati al settore artistico-culturale. In particolare, quando si tratta dei finanziamenti a enti che svolgono attività di studio, ricerca, documentazione finalizzate all’acquisto, la manutenzione, la protezione e il restauro di beni artistici. Sia le persone fisiche sia i soggetti Ires (società ed enti commerciali e non commerciali), inoltre, possono scegliere di dedurre dal reddito dichiarato, nel limite del 10% di quello complessivo e comunque non oltre i 70mila euro annui, l’importo delle erogazioni in denaro o natura erogate dal 15 maggio 2005.
Prospettive future
Alla luce del quadro fin qui delineato, è chiara la necessità di lavorare celermente e bene ad un miglioramento dei vantaggi fiscali in materia di donazioni alla cultura. Bisognerà rilanciare l’Italia anche dal punto di vista degli investimenti esteri, tenendo conto che nel 2007 l’Italia è risultata il ventitreesimo paese al Mondo e il penultimo paese nell’UE per attrazione di investimenti. Anche per quanto riguarda il turismo, le cui risorse sono strettamente legate all’ambito culturale, se nel 1970 eravamo il primo Paese al mondo per numero di turisti stranieri, ora siamo piombati al quinto posto, dietro Francia, Spagna, Stati Uniti e Cina, e probabilmente retrocederemo ancora. Anche questo è un campanello d’allarme che indica lo stato di emergenza in cui versa il nostro patrimonio culturale, sempre meno allettante anche per il mercato estero. Se si dovrà intervenire, pertanto, bisognerà farlo con la massima urgenza ma anche con oculatezza, con l’apporto di tutti i soggetti interessati anche in termini di confronto e di dibattito. 

Caterina Pisu (ArcheoNews, gennaio 2011)

Uganda: chiuderà l'unico museo nazionale?

L’Uganda ha un unico museo nazionale, situato a poca distanza dal centro di Kampala, a Kitante Hill. Le sue collezioni riflettono il passato multiculturale del Paese e spaziano dalla documentazione delle culture indigene alle testimonianze dell’archeologia, della storia e del patrimonio naturalistico locale. Lo stesso edificio che ospita il museo ha una storia di grande interesse: risalente agli anni ’50, esso è opera dell’architetto e urbanista tedesco Ernst May, molto attivo in Africa orientale, cui si deve anche la pianificazione urbanistica di Entebbe, capitale amministrativa dell’Uganda in epoca coloniale. Eppure, questo simbolo dell’identità culturale ugandese è destinato a scomparire in tempi rapidi a causa della decisione presa lo scorso novembre 2010 dal Ministero del Turismo, Commercio e Industria, che al suo posto intende costruire  l’"East African Trade Centre", un grattacielo di sessanta piani che ospiterà un centro commerciale, gli uffici dello stesso Ministero e, almeno così è stato promesso, la nuova sede del museo, cui dovrebbero essere riservati due piani. I problemi sono molti e non di poco conto: prima di tutto la durata dei lavori di costruzione del grattacielo non sarà inferiore ai venticinque anni e in questo lasso di tempo il museo non avrà nessuna sede provvisoria. Il Paese, in definitiva, non avrà più un museo nazionale e questo è il fatto più grave. In secondo luogo, come è stato obiettato dallo storico ugandese Ephraim R. Kamuhangire, ex capo del Dipartimento dei Musei e Monumenti, i due piani concessi al museo nel nuovo Trade Centre non possono assolutamente soddisfare gli standard internazionali indicati per gli spazi museali. Tra uffici e negozi, come si garantiranno la tranquillità e la sicurezza necessarie per lo svolgimento delle visite e delle attività didattiche? Rose Mwanja, direttrice del museo, teme, inoltre, che se finora il Museo ha sempre avuto scarsa considerazione da parte delle autorità ugandesi, “c’è la certezza che fra 10 o fra 30 anni esso avrà voce per rivendicare gli spazi promessi nel Trade Center, oppure sarà ormai un problema dimenticato”? Sebbene il Ministero del Turismo continui a parlare di “modernizzazione” per giustificare la demolizione del museo, in realtà potrebbero essere scelti molti altri posti più adatti per erigere il Trade Centre, ed è per questo motivo che alcune organizzazioni non governative, tra cui Historic Resources Conservation Initiatives, Cross Cultural Foundation of Uganda, Historic Buildings Conservation Trust e Jenda Africa, hanno citato in giudizio il Governo ugandese, in quanto il progetto sarebbe illegale e contrario alle disposizioni stabilite dai trattati internazionali in materia di beni culturali.
Caterina Pisu (Il Giornale dell'Architettura, Anno 10, n. 94, maggio 2011) 

Salviamo lo storico Museo Nazionale dell'Uganda

L’edificio che ospita l’unico Museo Nazionale dell’Uganda, ubicato nel centro di Kampala, rischia di essere raso al suolo per fare posto ad un grattacielo. E’ la notizia che giunge dall’Uganda e che in questi giorni è stata evidenziata su alcuni quotidiani e siti web ugandesi, come il Daily Monitor e allafrica.com. Sono stati organizzati anche dibattiti per sensibilizzare l’opinione pubblica, ma al momento è soprattutto la comunità intellettuale a mantenere viva l’attenzione sul caso, in particolare l’organizzazione non governativa Historic Resources Conservation Initiatives (HRCI). Ci siamo rivolti al suo direttore esecutivo, Ellady Muyambi, per avere maggiori informazioni su quanto sta accadendo in Uganda. Abbiamo saputo che il governo dell'Uganda, attraverso il Ministero del Turismo, Commercio e Industria (MTTI), intende dare avvio ad un progetto di costruzione di un modernissimo edificio commerciale di 60 piani che sarà chiamato "East African Trade Centre". Il progetto, che dovrebbe iniziare il prossimo settembre 2011, prevede la demolizione del Museo Nazionale dell'Uganda. Molti si oppongono alla distruzione del vecchio edificio anche perché si tratta di una pratica che in Uganda, e in particolare a Kampala, sta avendo una scellerata diffusione e con il pretesto della modernizzazione si abbattono gli edifici storici della città! Sembra non esistere alcuna attenzione alla tutela e alla conservazione del patrimonio storico e culturale da parte della classe politica e imprenditoriale ugandese. Per giustificare la distruzione dell’edificio che ospita il Museo Nazionale dell’Uganda si è detto che si tratta soltanto di un vecchio palazzo, mentre in realtà ha un suo importante valore architettonico perché è stato progettato più di 60 anni fa dall’architetto e urbanista tedesco Ernst May. La sua opera fu determinante per lo sviluppo della moderna architettura in Africa orientale e uno degli ultimi incarichi da lui svolti prima di rientrare in Germania fu proprio la costruzione del Museo Nazionale dell’Uganda che, tra l’altro, è uno dei suoi pochi progetti rimasti inalterati nel tempo. Il primo nucleo del Museo Nazionale dell’Uganda è del 1908 ed era ubicato a Fort Lugard, poi nel 1954 venne trasferito nella nuova sede costruita dall’architetto May, a Kitante Hill, dove si trova tuttora. Dal 1977 il museo è diventato governativo ed ha assunto anche il prestigioso ruolo di Dipartimento delle Antichità e dei Musei. Ascolta
Trascrizione fonetica
Il più antico museo dell’Africa orientale attualmente contiene un’importante collezione etnografica sulle tribù ugandesi e una collezione di strumenti musicali dell'Africa pre-coloniale. Ellady Muyambi ci ha spiegato che il motivo ufficiale per cui il grattacielo sostituirà l’edificio del Museo nazionale dell’Uganda è che esso dovrà innanzitutto ospitare il Ministero del Turismo, Commercio e Industria, il quale ora è situato in una zona della città ritenuta troppo congestionata. Quindi, ufficialmente si dice che il terreno su cui sorge il Museo dovrà essere utilizzato per l’interesse generale, in quanto, al presente, i costi di locazione degli uffici in cui si svolgono le attività del Ministero del Turismo sarebbero troppo elevati, mentre il museo, che di per sé non è una grande fonte di reddito, occupa, invece, un terreno edificabile di alto valore commerciale che potrà essere utilizzato, dal punto di vista governativo, in modo assai più proficuo. Altre voci, però, parlano anche di considerevoli speculazioni edilizie ben lontane dall’interesse generale. Auspichiamo che tutto ciò non avvenga, ma il tempo è poco e se non saranno trovate delle soluzioni equilibrate, il prossimo settembre dovremo assistere alla distruzione dell’unico, antico Museo Nazionale dell’Uganda. Da parte nostra si continuerà a mantenere viva l’attenzione su questo caso che, al momento, non sembra ancora avere attirato sufficientemente l’attenzione della comunità internazionale.
Caterina Pisu (ArcheoNews, marzo 2011)

La battaglia di François Cachin

Il ricordo della grande museologa e storica dell’arte recentemente scomparsa e le sue preoccupazioni per il futuro dei musei francesi

Lo scorso 4 febbraio la Francia ha perso una figura di spicco dell’ambito museale, Madame François Cachin, spentasi a Parigi dopo una lunga malattia. Nata nel 1936, il nonno paterno era Marcel Cachin (fondatore, nel 1920, del Partito Comunista Francese e direttore dell’organo di stampa del partito, L'Humanité, dal 1918 al 1958), mentre il nonno materno, da cui ereditò l’interesse per l’arte, era il pittore Paul Signac (il creatore con George Seurat del movimento pittorico del Puntinismo e del Divisionismo). Allieva del grande storico dell’arte André Chastel, la Cachin iniziò la sua carriera nei più importanti musei di Parigi, diventando curatrice del Musée national d'Art Moderne, del Palais de Tokyo e del Centre Georges Pompidou. Successivamente lavorò alla progettazione e all’allestimento del Musée d'Orsay, dal 1978 al 1986, di cui fu anche manager fino al 1994. Dopo aver organizzato importanti mostre su Van Gogh, Gauguin, Seurat e altri artisti, e curato cataloghi che sono diventati pietre miliari della storia dell’arte, fu nominata Direttore dei Musei di Francia, prima donna a ricoprire tale carica e che mantenne fino al 2001, anno del suo pensionamento. Nonostante avesse ormai lasciato il suo incarico al Ministero della Cultura, non rimase inattiva e la morte l’ha colta mentre preparava una mostra dedicata a Manet, uno dei suoi artisti preferiti, che sarà inaugurata in aprile presso il Musée d'Orsay (Manet, inventore del Moderno, 5 aprile – 3 luglio 2011). Il ministro della Cultura, Renaud Donnedieu de Vabres, la estromise dalla Commissione per gli acquisti dei musei nazionali e dalla presidenza di Frame (French Regional & American Museum Exchange) a causa delle sue nette prese di posizione contro la politica culturale del governo francese. Questa esclusione le procurò un grande dolore. Tradizionalista inflessibile, la Cachin, infatti, contrastò apertamente la mercificazione del patrimonio museale, e fu co-autrice, nel dicembre del 2006, di un articolo pubblicato su Le Monde, insieme agli illustri storici dell’arte Jean Clair e Roland Recht, “Les musées ne sont pas à vendre (contro il progetto di apertura del Louvre di Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti, e del Louvre di Atlanta, in Georgia), un vero e proprio articolo-manifesto che rappresenta, ora, oltre che il punto di vista di buona parte della comunità dei professionisti museali francesi, anche una sorta di testamento intellettuale della Cachin. In quell’articolo del 2006, si ribadiva l’importanza che i musei francesi continuassero a ricevere il supporto finanziario dello Stato e degli enti locali, a garanzia di una gestione libera e avulsa da pressioni di tipo commerciale. Cachin, Clair e Recht in quel discusso articolo posero l’accento sulla differenza tra il sistema museale statunitense, fondato quasi interamente sul finanziamento privato (tranne il museo nazionale di Washington) e il sistema museale francese, nel quale, nonostante l’approvazione delle recenti norme a favore del mecenatismo (favorito da sgravi fiscali concessi alle aziende e ai privati che finanziano i musei per l’acquisto di nuove opere d’arte o che fanno donazioni), il ruolo di servizio pubblico dei musei è ancora centrale.  Rispetto agli americani, pionieri delle esportazioni a pagamento delle proprie collezioni museali in tutto il mondo e che si vantano della loro politica di "entertainment business", il mondo museale europeo può vantare, invece, una lunga tradizione nella valorizzazione e nella cura delle proprie collezioni e nella promozione del ruolo educativo delle istituzioni museali; esso, inoltre – ribadiscono Cachin, Clair e Recht - si è autoregolamentato, assumendo un proprio codice etico formulato e ufficializzato dall’ICOM (International Council of Museums). Anche negli Stati Uniti, però, non è mancato il dibattito su questo tema e già nel settembre del 2003, ricordano i tre autori francesi, Philippe de Montebello, direttore del Metropolitan Museum di New York, aveva messo in guardia circa la commercializzazione dilagante del patrimonio culturale pubblico, criticando, in particolare, il sistema dei "loan fees" (prestiti a pagamento), nonché la tendenza di alcuni musei di diventare "mercati culturali" e "parchi di divertimento". “In tal modo rischiano”, rimarcava de Montebello, "di perdere la loro anima." Cachin, Clair e Recht, pur precisando di non essere completamenti chiusi ad un uso ragionevole delle sponsorizzazioni, ribadiscono che certamente non si può nascondere una viva preoccupazione per il sopraggiungere di rapidi cambiamenti di cui non si è ancora in grado di prevedere e valutare gli sviluppi futuri, i quali potrebbero causare irreversibili trasformazioni nella gestione, cura e fruizione delle collezioni museali. Tutto ciò senza che sia stata data la possibilità di un dibattito all’interno della comunità dei professionisti museali per preparare nel modo migliore le innovazioni più utili ed eticamente corrette. “Il peggio deve ancora venire”, denunciano i tre autori; lo dimostra il progetto di Abu Dhabi, un paese di soli 700.000 abitanti, ma dotato di grandi risorse finanziarie, in cui si vorrebbe creare, per fini turistici, un “distretto culturale” che includerà le “filiali” di alcuni musei europei, come il Gugenheim e il Louvre, un Museo del Mare, una sede della New York University ed un centro di arti performative. Il progetto si basa su un contratto che impegnerà le istituzioni europee e americane a “vendere” la propria “griffe” alle succursali negli Emirati, e a fornire collezioni, singole importanti opere d’arte e competenze; il tutto in cambio del versamento di svariate centinaia di milioni di euro per i prossimi trent’anni. Il Louvre sarà obbligato, pertanto, alla cessione di prestiti di opere d’arte a lungo termine, privandone i propri visitatori, i quali forse per molto tempo non troveranno più “La Gioconda” a Parigi, ma dovranno recarsi negli Emirati Arabi Uniti per poterla ammirare!  N'est-ce pas cela vendre son âme?” è il grido d’allarme lanciato da Cachin, Clair e Recht.
Caterina Pisu (ArcheoNews, marzo 2011)

L'attualità del metodo Bruno Munari nella didattica museale

Bruno Munari non fu soltanto un grande artista e designer italiano del XX secolo, formatosi nell’ambito del futurismo milanese e romano; a lui si deve anche l’ideazione di un metodo tuttora utilizzato nell’ambito della didattica museale, in particolare nei musei d’arte, e che da lui prende il nome. Munari, infatti, oltre che artista, è stato anche uno studioso, docente di psicologia dell’educazione presso l’università di Ginevra. Il suo primo laboratorio per i bambini fu creato nel 1977 nella Pinacoteca di Brera. La finalità che si proponeva era insegnare ai giovanissimi visitatori come guardare l’opera d’arte, vivendo questo momento come un’esperienza irripetibile.  Può sembrare un’impresa apparentemente ardua per un bambino, ma in realtà non è così perché il linguaggio usato è proprio il più simile a quello dei bambini. Essi esplorano per natura ogni cosa e così non è difficile aiutarli a scoprire materiali, caratteristiche e tecniche delle opere. In pratica è l’esperienza che porta il fanciullo alla comprensione e al discernimento. Il principio didattico su cui si basa il metodo Munari è dunque: "non dire cosa fare ma come". Esso, inoltre, trae ispirazione dalla pedagogia attiva di Maria Montessori ed anche dello psicologo e pedagogista svizzero Jean Piaget. Le «azioni didattiche» di Munari coinvolgono il bambino attivamente e globalmente soprattutto attraverso il principio dell’educazione al tatto. Gli operatori, pertanto, non suggeriscono alcun metodo perché sono gli stessi fanciulli che si costruiscono autonomamente il loro modo di osservare, capire, costruire, riprodurre, ispirandosi alle opere d’arte di ogni epoca. Il metodo Munari si basa su tre azioni successive: “osservare”, “fare” e “riflessioni sul fare”. Dopo aver osservato le opere, quindi, i bambini sperimentano essi stessi l’uso dei materiali e delle tecniche e infine, terzo e ultimo passaggio, creano delle storie ispirandosi ai loro stessi lavori. Basandosi su tale metodo, Munari creò numerosi altri laboratori dopo quello di Brera. Si ricordano i Laboratori Tattili realizzati in occasione della mostra Le mani guardano, nel 1979, e Giocare con l’arte, durante una mostra antologica dello stesso Munari, nel 1986/87, entrambe presso il Palazzo Reale di Milano; Giocare con la natura, al Museo di Storia Naturale di Milano, nel 1988; il Lab-Lib, ovvero il “laboratorio liberatorio”, presso il Museo Pecci di Prato, nel 1992. Le attività inizialmente proposte nel laboratorio di Brera ai bambini delle scuole elementari furono estese, in seguito, anche ai bambini delle materne, agli studenti delle medie e in alcuni casi a quelli delle superiori. Attualmente l’Associazione Bruno Munari, fondata nel 2001, tre anni dopo la scomparsa del Maestro, e che si propone di promuovere e di sviluppare ancora oggi il metodo Munari, rivolge i propri laboratori anche agli adulti. La principale attività resta quella di diffondere i principi ispiratori e le tecniche di questo metodo pedagogico nelle scuole, nei musei e nelle biblioteche. Poiché l’applicazione del metodo necessita di operatori specializzati, l’Associazione Bruno Munari svolge anche attività formative rivolte in primo luogo a insegnanti, educatori, formatori ed operatori culturali. A Milano è stato recentemente creato il “MunLab”, uno spazio permanente per conoscere e sperimentare il Metodo Bruno Munari, che collabora anche con la rivista Focus Junior. Un MunLab è stato istituito anche presso l’Ecomuseo dell’argilla, a Cambiano, in provincia di Torino. Ulteriori informazioni sono reperibili sul sito dell’Associazione Bruno Munari, www.brunomunari.it,  dove è possibile reperire anche una bibliografia completa, e in quello del MunLab, www.munlab.it.

Caterina Pisu (ArcheoNews, rubrica Musei e Biblioteche, febbraio 2011)

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