I Musei aziendali: l’incontro vincente tra industria e cultura

L’istituzione museale, attraverso un lungo e articolato processo di auto-analisi, è sempre più orientata verso una maggiore interazione con la collettività cui appartiene. I nuovi “pubblici” dei musei manifestano le stesse esigenze della società moderna; così, rispetto a cinquant’anni fa c’è ora una ricerca molto più incisiva di nuovi strumenti di comunicazione anche in ambito museale.

Uno delle effetti di questi cambiamenti è la nascita, negli ultimi decenni, di  più attuali modelli di museo che spesso si contraddistinguono proprio per una maggiore vocazione alla “comunicazione”: un caso interessante è quello dei musei aziendali o musei d’impresa, cioè di quei musei che raccontano la storia di un’azienda facendo conoscere i valori etici e imprenditoriali su cui essa si fonda e nel contempo salvaguardando importanti patrimoni documentali appartenenti alle imprese. I Musei aziendali rivestono, da questo punto di vista, una innegabile importanza come strumenti di ricostruzione storica del processo di industrializzazione nel nostro Paese.

Ci sono, poi, altri aspetti che rendono interessante questa categoria museale: per esempio la loro rapida diffusione, negli ultimi decenni, su tutto il territorio nazionale anche grazie al potenziamento del cosiddetto “turismo industriale”. Secondo Museimpresa, l’Associazione Italiana Archivi e Musei d’Impresa promossa da Assolombarda e Confindustria, in base al censimento più recente si calcolano, oggi, circa 250 musei aziendali; si tratta, però, di una cifra più bassa del reale in quanto una rilevazione statistica precisa delle presenze è molto difficile da attuare e inoltre bisogna considerare che in questo numero non sono compresi gli archivi e neppure i musei territoriali, volendo estendere la categoria dei musei aziendali anche a questi.

La maggior parte dei musei aziendali è nata tra gli anni ottanta e l’inizio degli novanta e la concentrazione maggiore è nel nord Italia, essendo questa l’area più industrializzata del Paese. I visitatori sono in prevalenza scolaresche e studenti universitari, ma in alcuni casi si registra un buon afflusso anche di turisti, specialmente se i musei aziendali entrano a far parte delle reti museali provinciali e regionali.

C’è anche da dire che questi musei potrebbero rappresentare sempre di più, in futuro, proprio per le potenzialità che presentano, anche una valida occasione di impiego per i professionisti museali. Monica Amari (I Musei delle aziende. La cultura della tecnica tra arte e storia, ultima edizione Milano 2007) riferisce che, sulla base di un questionario inviato a circa duecento aziende, è da rilevare la presenza di un curatore nel 73% dei musei, collezioni e archivi aziendali.  Già in un articolo del Corriere della Sera di undici anni fa (26 giugno 1998), Felice Fava prospettava una crescita delle opportunità di lavoro nel settore dei musei aziendali.

In realtà, a fronte del moltiplicarsi di corsi universitari e master rivolti alla formazione dei cosiddetti “manager culturali”, è bene sapere che le probabilità di inserimento in questo settore, così come in tutti gli ambiti che riguardano i Beni culturali, sono ancora molto basse. La speranza è che l’incremento di questi modelli di museo conduca prima o poi, date anche le finalità auto-promozionali, ad una competitività tra le aziende anche sul terreno dell’investimento in cultura, a vantaggio dei giovani esperti museali.

Intanto si moltiplicano le iniziative di studio e di dibattito sulla cultura d’impresa: è dello scorso novembre l’VIII Edizione della Settimana della Cultura d’Impresa promossa da Confindustria che ha visto un vasto programma di rassegne cinematografiche, workshop, laboratori creativi, visite guidate, convegni e dibattiti, tutti indirizzati a sottolineare l’impegno delle aziende nella conservazione e nella valorizzazione dei propri archivi e musei. Le stesse imprese, poi, propongono sempre più spesso mostre temporanee, incontri ed eventi di ogni tipo.

Per un approfondimento dell’argomento si consiglia la lettura del già citato volume di Monica Amari che presenta anche un accurato elenco delle collezioni e dei musei aziendali in Italia con relativa scheda e utili informazioni di contatto. Un riferimento importante è anche il sito web ufficiale di Museimpresa, www.museimpresa.com.



Caterina Pisu (ArcheoNews, dicembre 2009)

Il bersaglio di Herity

Nuovi metodi internazionali di valutazione dei musei

In questi ultimi anni sono state varie le iniziative volte a definire gli standard di funzionamento e la qualità dei servizi in ambito museale e, più in generale, in tutto il settore dei beni culturali. In questa direzione opera Herity, (Organismo Internazionale per la Gestione di Qualità del Patrimonio Culturale), organizzazione non governativa che nasce nel 2003 su iniziativa dell’Ente Interregionale Programmazione Culturale e Turistica (DRI) per venire incontro all’esigenza di amministrare nel modo più razionale possibile il capitale dei beni culturali. La finalità di Herity è la diffusione del sistema di certificazione denominato HGES (Herity Global Evaluation System), condiviso internazionalmente e di cui l’Italia è il paese pilota.

Il metodo, che consiste in una valutazione periodica (da ripetersi ogni tre anni) attraverso l’utilizzo di parametri scientificamente accettati, è applicabile a tutti i beni culturali: musei, biblioteche, archivi, siti archeologici, monumenti, chiese e palazzi storici, purché aperti al pubblico.

Il sistema rende disponibile per il pubblico un modello multidimensionale che indica lo stato di monumenti, siti archeologici, musei, biblioteche e archivi. Tale modello, di facile lettura, si presenta graficamente come un “bersaglio” suddiviso in quattro quadranti, ciascuno dei quali rappresenta la rilevanza percepita, lo stato di conservazione, la comunicazione trasmessa, i servizi offerti al pubblico. Il livello raggiunto dai singoli musei è espresso in una scala da 1 a 5. Il bersaglio viene quindi apposto sul luogo certificato e utilizzato anche nel materiale a stampa, reso disponibile per il pubblico, e in Internet.

Il “bersaglio” è solo il risultato finale di una lunga e complessa procedura di valutazione dei musei, durante la quale vengono prese in considerazione 3 fonti: l’autovalutazione dei responsabili dei beni culturali, una expertise internazionale (tre esperti internazionali) e l’opinione raccolta presso il pubblico.

Come ha dichiarato Maurizio Quagliolo, Coordinatore Generale di Herity, in un’intervista rilasciata a Fausto Natali per la rivista Siti (Associazione Città e Siti Italiani Patrimonio Mondiale UNESCO):coinvolgere il pubblico nel processo significa avere una formidabile opportunità di successo. A sua volta il coinvolgimento del pubblico richiede accuratezza dell’informazione. L’accuratezza dell’informazione migliora la conoscenza dello stato di un monumento, anche da parte degli addetti ai lavori. E’ qui la differenza di Herity: nasce appositamente per il Patrimonio Culturale e raccoglie il meglio delle certificazioni ISO come dei sistemi di TQM o, cosiddetti, “Michelen Like”, quelli legati al gradimento dei visitatori, ma li supera. Infatti Herity è multi-dimensionale, in quanto analizza e descrive quattro differenti dimensioni di un bene culturale; multi-scopo in quanto orientato alle necessità del pubblico come dei responsabili del sito e degli altri stakeholders; multi-prospettiva, raggiungendo i suoi risultati grazie al contributo di fonti diverse: l’autovalutazione dei responsabili, una valutazione esterna e l’opinione del pubblico”.

Da una verifica effettuata da Herity, inoltre, è stato dimostrato che il 72% dei luoghi certificati ha potuto, grazie a questo procedimento, migliorare i servizi; il 61% del pubblico, invece, ha dichiarato di aver apprezzato mag­giormente la visita e di non aver avuto delusioni grazie alle informazioni avute preventivamente; il 42% degli stakehol­ders (finanziatori, fornitori, ecc.) ha riconosciuto di aver utilizzato i dati dichiarati come supporto alle proprie decisioni.

Herity sostiene il sistema di gestione di qualità del patrimonio culturale mediante un costante studio e monitoraggio dei risultati. Dal 2006 si sono susseguite due Conferenze Scientifiche Internazionali di Herity. La prima Conferenza del 2006 si è svolta sul tema “Qualità nella Gestione del Patrimonio Culturale: modelli e metodi di valutazione” ed ha fatto il punto della situazione sulle classificazioni esistenti per monumenti, musei, siti archeologici, biblioteche e archivi. La seconda Conferenza Internazionale Herity ha dato inizio ad una serie di edizioni che saranno incentrate, di volta in volta, su un tema rappresentato nel “bersaglio” Herity: la conferenza del 2008, infatti, ha già affrontato il tema del Valore, ovvero la rilevanza percepita. In particolare, durante la conferenza sono state esaminate le esperienze a livello internazionale sulle possibilità di misurare le differenti accezioni del Valore applicato ai beni culturali materiali aperti al pubblico, osservandole da differenti punti di vista.

Ad oggi sono stati certificati i primi 43 musei del Lazio distribuiti nelle cinque province, tra cui Castel S. Angelo, la Centrale Montemartini, la Galleria Doria Pamphili, i Musei Capitolini, il Museo Napoleonico, il Museo di Palazzo Venezia, il Planetario e il Museo Astronomico; mentre fuori dal Lazio sono stati certificati 30 ecomusei della provincia di Torino, per i quali è già partito il rinnovo della certificazione. Altre certificazioni sono in corso di applicazione in altre regioni.

Herity può offrire anche buone opportunità di formazione ai giovani laureandi e laureati; è possibile rivolgersi direttamente ad Herity sia per svolgere la propria tesi di laurea sull’attività di questo organo sia per svolgere stage al suo interno. Maggiori dettagli sono disponibili sul sito della Herity, www.herity.it.

Caterina Pisu (ArcheoNews, gennaio 2010)

Imprenditori nel museo

LE OPPORTUNITA’ DEL MERCHANDISING MUSEALE


Grazie all’emanazione della Legge Ronchey, nel 1993, i musei e i siti archeologici si sono potuti dotare, affidandoli alla gestione dei privati, di veri e propri negozi in grado di soddisfare le nuove esigenze dei visitatori. Il merchandising museale, in base ai dati disponibili, avrebbe raggiunto nel 2004, in Italia, un fatturato di circa 20 milioni di euro. Si tratta, però, di una cifra relativamente bassa se si pensa, per esempio, che uno dei maggiori musei del mondo, il Metropolitan Museum di New York ha, da solo, un fatturato tre volte maggiore. In ogni caso le potenzialità offerte dal mercato del merchandising museale sono in aumento, con un trend positivo di crescita, sebbene solo il 24% dei siti statali possieda al suo interno un bookshop.

Il merchandising museale comprende varie forme di produzione e di vendita che vanno dal bookshop al giftshop, talvolta distinti nell’ambito di uno stesso museo, talvolta uniti. Possono esserci, poi, ulteriori, diversificazioni, come la vendita di prodotti tramite distributori automatici, la vendita in negozi esterni all’edificio del museo ma ad esso collegati, come per esempio il Design Store del MoMA e, infine, l’e-commerce, cioè la vendita a distanza attraverso i canali di Internet. Negli Stati Uniti il sito  http://www.musee.com/ permette di conoscere tutti i museum stores esistenti in ciascuno stato americano, con la possibilità di effettuare la ricerca anche scegliendo la categoria del museo.

Nel settore del merchandising museale, i prodotti editoriali concorrono a produrre oltre il 50% del fatturato dei museum stores, mentre l'oggettistica contribuisce, attualmente, soltanto per circa un terzo.


La creazione di un museum store o di un’impresa produttrice di oggettistica museale, potrebbe essere un’idea da mettere a frutto, soprattutto da parte dei giovani professionisti della cultura, tenendo comunque ben presente le difficoltà e i rischi di insuccesso, legati a qualunque attività di tipo commerciale e imprenditoriale.


L’esempio è già stato dato da “Res antiquae” di Roma, una piccola cooperativa archeologica realizzata da giovani che opera, appunto, nell’ambito del merchandising museale, ideando e realizzando con successo oggettistica museale. I prodotti di “Res antiquae”, infatti, sono in esposizione in vari negozi museali di Roma e provincia. Gli oggetti prodotti sono molto semplici; si tratta soprattutto di gadget legati alle collezioni museali, ma il rapporto qualità prezzo e l’originalità delle produzioni sono l’arma vincente di questa cooperativa che, non a caso, è riuscita ad imporsi in un mercato concorrenzialmente molto difficile.


E’ importante, per evitare rischi di insuccesso, che il futuro merchandiser  affronti  l’eventuale progetto di impresa con una buona preparazione di base. Al momento, tuttavia, non sono molti i corsi di preparazione in questo settore; l’ultimo fu organizzato nel 2007 dalla Galleria Borghese ed era destinato alla preparazione di "Tecnico costruttore di merchandising mussale", vale a dire alla formazione di figure professionali in grado di realizzare riproduzioni e re-interpretazioni di opere d'arte, anche destinate al mercato internazionale.



Fortunatamente, nonostante l’esiguità dell’offerta formativa attuale, per contro è sempre più ampia la bibliografia disponibile sul merchandising museale, dato il crescente interesse per le problematiche inerenti i servizi accessori nei musei. Da citare anche il convegno dell’ottobre 2006, dedicato al tema della produzione di oggettistica per i musei ed i beni culturali, organizzato da Fitzcarraldo in collaborazione con la Regione Piemonte.


Si sono moltiplicate, in questi anni, anche le occasioni di concorso, come quello del DAB / Design per Artshop e Bookshop, l’ultima edizione del quale è dell’aprile 2009, consistente in una mostra di oggetti d'arte e di design progettati da giovani artisti italiani per i museum stores. La mostra-concorso ha permesso di individuare dieci oggetti da produrre e da commercializzare che sono poi andati a costituire la Linea del consorzio DABxGAI, presentata anche al Museum Expressions di Parigi. La sigla GAI sta per Giovani Artisti Italiani.


E ancora si può citare il concorso di idee lanciato da Zètema per il merchandising museale e per il riallestimento della libreria di Palazzo Conservatori, che ha visto la partecipazione di ben 114 candidati provenienti da tutta Europa, divisi in due categorie, quella dei professionisti nel settore design, grafica, architettura, ingegneria, e quella degli studenti under 28 frequentanti corsi di laurea in architettura o altri istituti o scuole di design e grafica. Le realizzazioni dei vincitori entreranno nelle linee in vendita nelle varie librerie e book shop gestite da Zètema a partire dal 2010.


Questi concorsi evidenziano l’importanza delle molte figure professionali che possono contribuire allo sviluppo del merchandising museale: dal designer al grafico, dall’architetto all’artigiano. Non si tratta, come già detto, soltanto di vendita al pubblico, ma anche di produzione di oggetti che siano coerenti, ovviamente, con le collezioni del museo stesso. Solitamente si tende a privilegiare i prodotti artigianali legati al territorio, come nel caso del progetto “Capo d’opera”, nato per promuovere l’artigianato regionale e per valorizzare il patrimonio artistico del Piemonte attraverso la progettazione e la prototipazione delle collezioni di oggetti destinati ai Musei civici di Torino e, in futuro, a tutto il sistema delle Residenze sabaude. Oppure come nel progetto toscano MUSEOMUSEO, presentato da Artex nel 1997, che aveva realizzato una collezione di 500 oggetti di alto livello ispirati al patrimonio artistico museale italiano, prodotti da aziende artigiane toscane: la collezione era destinata alla commercializzazione nei punti vendita museali italiani ed esteri e aveva il duplice scopo di facilitare la fruizione del patrimonio dei  musei e di valorizzare la produzione dell'artigianato artistico. L’alta qualità era garantita anche dal controllo di un comitato scientifico, eseguito sia sull’iconografia sia sulla produzione degli oggetti.


Per concludere, qualunque sia l’entità dell’impresa, è importante valutare con attenzione i target di utenza e utilizzare anche le indagini sul pubblico già disponibili. Cito, per esempio, l’indagine conoscitiva svolta da Chiara Mauri e da Armando Cirrincione (“Shopping nei musei. Emozioni e acquisti nei museum shop”, Milano 2006), volta a descrivere il comportamento dei clienti dei museum stores. E’ interessante scoprire, dalla lettura del resoconto di questa ricerca, che le motivazioni e gli atteggiamenti di chi accede al bookshop, nel caso specifico, sono molto varie. Una frase, tuttavia, mi sembra particolarmente significativa e può aiutare a comprendere meglio la funzione del negozio nel museo: “Il bookshop è un luogo dove poter acquistare un pezzo di quell’emozione (quella provata nel corso della visita al museo) da portare con sé”.


Caterina Pisu (ArcheoNews, febbraio 2010)

I CONTRATTI NAZIONALI DI LAVORO PER I PROFESSIONISTI MUSEALI: PROBLEMATICHE APERTE

Dal 2006 l’ICOM Italia ha avviato un’indagine sui contratti nazionali di lavoro per il personale dei musei. Una prima stima sul numero del personale presente complessivamente nei musei italiani, con varie tipologie di contratti e varie mansioni, ha portato a individuare la cifra di circa 50.000 persone, la maggior parte delle quali è amministrata da contratti di lavoro collettivi così riassunti dall’ICOM:
CCNL Ministeri, CCNL Regioni ed Autonomie locali, CCNL Federculture (l’unico contratto specificatamente indirizzato al settore culturale, soprattutto in ambito imprenditoriale), CCNL Ricerca (per tutto il personale operante nell’ambito della ricerca sia a tempo determinato sia a tempo indeterminato), CCNL Commercio, servizi e terziario (adottato in alcuni musei soprattutto per il suo buon margine di flessibilità, lasciando alcune prerogative alla facoltà decisionale dei dipendenti, per esempio per la gestione delle ferie e degli orari di lavoro), CCNL Turismo (rivolto alle aziende alberghiere, complessi turistici, ecc., applicato per esempio da associazioni che si occupano della gestione di musei, chiese di rilevanza storico-artistica, palazzi storici; anche in questo caso il contratto gode di una buona flessibilità), CCNL Multiservizi (applicato soprattutto nell’ambito di cooperative e di società che lavorano in appalto anche per l’amministrazione pubblica, vedi la gestione dei servizi ausiliari), CCNL Portierato (specifico per gli addetti alla sorveglianza o alla pulizia negli stabili proprietà di soggetti terzi).



Concentrando l’attenzione sulle prime due tipologie di contratto, per quanto riguarda i musei statali, i profili professionali che operano nell’ambito del Ministero per i Beni e le Attività Culturali non sono distinti in base alle funzioni che svolgono o all’ambito in cui agiscono; pertanto non è considerata la figura del direttore di museo, del curatore, del conservatore, del responsabile dei servizi educativi, ecc., ma si fa riferimento unicamente alle competenze possedute, distinguendo tra archeologi, architetti, storici dell’arte, ecc.; sono poi le declaratorie che descrivono le specifiche attività di lavoro per ciascun profilo professionale.



I musei statali (come anche la maggior parte dei musei civici) non hanno autonomia gestionale e finanziaria, infatti questi dipendono direttamente dalle soprintendenze cui afferiscono. Il direttore di un museo statale è individuato, di solito, tra i funzionari di livello C3 e opera su delega del soprintendente. Lo svantaggio è che il personale, non appartenendo al singolo istituto museale in modo permanente e definitivo, può essere spostato o impiegato contemporaneamente in altre attività, a discapito dello svolgimento di tutte le funzioni del museo stesso, che non sono finalizzate soltanto alla fruizione pubblica delle sue collezioni, ma anche allo studio, alla ricerca, alla conservazione, alla didattica. Il vantaggio, invece, è quello di poter costituire una rete di musei che afferiscono ad un’istituzione centrale e che godono, così, di servizi comuni producendo un risparmio gestionale.



Venendo agli enti locali (seconda tipologia di contratto), i circa 3430 musei civici (censiti dalla Corte dei conti nel 2005) sono generalmente gestiti in parte da fondazioni e associazioni, in parte direttamente dagli uffici comunali competenti, cioè in economia. Province e Regioni hanno il compito di collegare e coordinare i vari musei presenti nel territorio. Il CCNL per le Regioni e le Autonomie locali prevede la distribuzione dei dipendenti  tra i vari settori ed unità operative, sulla base della pianta organica che determina il fabbisogno di personale del Comune e quindi provvede alle assunzioni a seconda delle competenze richieste e dell’inquadramento attribuito. La disciplina di dettaglio è rimandata ai vari Contratti Collettivi Decentrati Integrativi (CCDI) e ai Regolamenti propri di ciascun Comune, Provincia e Regione.



I regolamenti dei singoli musei civici, che elencano le figure professionali, le declaratorie e i requisiti d’accesso del personale, rappresentano, al momento, forse l’unico strumento per specificare le singole professionalità museali e garantire il corretto funzionamento dei musei. Il decentramento attuato dalla riforma Bassanini, infatti, ha in pratica condotto alla equiparazione tra i musei civici e gli uffici amministrativi, applicando ai primi  i regolamenti comunali, generalmente difficili da utilizzare in contesti che hanno esigenze del tutto differenti da quelle di un ufficio amministrativo. Non solo, ma sempre per il principio della gestione in economia, si consente che l’amministrazione del museo sia affidata agli stessi impiegati comunali che fanno parte dell’organico fisso dell’ente, privi quasi sempre delle necessarie competenze, rinunciando all’assunzione di personale qualificato. Tuttavia il nuovo Codice dei Beni Culturali nell’art. 6 afferma che Regioni ed Enti locali devono concorrere, con lo Stato, al riconoscimento, alla tutela e alla catalogazione dei beni culturali presenti sui territori di propria competenza. In base al Codice e alla legislazione italiana (art. 33  l. 488/01) che ha accettato la definizione internazionale di museo e i principi stabiliti all’art. 2 c.1 dello Statuto dell’ICOM, il museo non potrebbe essere considerato una semplice articolazione amministrativa, temporanea e modificabile, ma un istituto della cultura permanente che acquisisce, conserva, ordina ed espone beni culturali per finalità di educazione e di studio. Anche i contratti nazionali, i CCNL cui si faceva cenno, dovrebbero adeguarsi a queste normative riconoscendo le figure professionali museali specifiche e i relativi ambiti operativi, ma la strada dei cambiamenti sarà ancora lunga e tortuosa.



Caterina Pisu (ArcheoNews, agosto 2010)

GRANDI MOSTRE: UNO SPRECO DI RISORSE?

Sempre attuale l’appello dell’ICOM del 2008

Il 14 giugno 2008 l’ICOM Italia compilò un documento, sottoscritto da tutte le associazioni museali italiane (AMACI, AMEI, ANMLI, ANMS e SIMBDEA), in cui si esprimeva preoccupazione per la moltiplicazione di mostre e grandi eventi, dissociandole dai musei stessi, quasi come se si trattasse di attività separate che nulla hanno a che fare non solo con le istituzioni museali ma neppure con le città, con i territori e con le comunità che li ospitano.

A due anni di distanza è opportuno risollevare il problema, quanto mai attuale soprattutto in questo momento di grave crisi economica che ha ulteriormente ridotto le già esigue risorse disponibili per il settore museale. La politica culturale degli anni Settanta ha, in vari modi, indirizzato le scelte delle pubbliche amministrazioni nei decenni successivi: attraverso l’organizzazione di eventi e di mostre-spettacolo si cercava di guadagnare nuovi pubblici e di “modernizzare” il vecchio sistema museale. Il problema concreto è che a poco serve l’organizzazione di una grande mostra se poi questa va a discapito della stessa salvaguardia e conservazione del nostro patrimonio artistico, architettonico e archeologico, privando gli istituti culturali, gli archivi, le biblioteche e i musei, del necessario sostentamento.

Il rischio è quello di un consumo culturale usa e getta che coinvolge, sì, grandi masse ma nell’arco di un breve periodo, quasi una sorta di “fast-culture”.

Mario Resca,  già manager della McDonald’s in Italia, ed ora direttore generale per la valorizzazione del patrimonio culturale del Ministero per i Beni culturali, afferma: «Gli ottimi esperti che abbiamo conservano l' arte, io cercherò di farla vedere a più gente possibile. Accessibilità, piacevolezza, servizi al pubblico. Pubblicità» (La Repubblica, 22 settembre 2009).

Eppure questo affiancamento del marketing alla cultura continua a lasciare un po’ d’amaro in bocca. Non è reticenza all’innovazione, ma piuttosto timore dell’effimero, della spettacolarità e del consumismo applicato alla cultura. A proposito delle mostre, scrive Rosanna Cappelli in “Punto e a capo. Abbecedario per i musei”: “la crescita a dismisura dell’attività e la sua progressiva e crescente esternalizzazione rischiano però di produrre forti disarmonie nelle dinamiche di funzionamento dei musei, in specie se non si riuscirà a ricomporre le scelte relative in un progetto complessivo di valorizzazione culturale e di definizione dell’offerta al pubblico […]” . Il problema, quindi, è quello di una subordinazione della cultura alle logiche di mercato, del tutto in conflitto con il Codice deontologico per i musei elaborato dall’ICOM che, al contrario, si oppone all’uso  dei beni museali come fonte di guadagno (art. 2.16). Eppure l’organizzazione di mega-mostre è ormai un business nelle mani di pochissime società specializzate, le uniche in grado di fare fronte ai costi elevati di progettazione e di allestimento. Ma non sempre si parla di successi. Nel suo documento, l’ICOM riporta una ricerca dell’Università Bocconi, commissionata dalla Regione Lombardia, in base alla quale “in Italia ogni anno vengono allestite più di 1600 mostre: per ogni grande successo vi sono decine di dolorosi fallimenti […] i tempi sono maturi per riconoscere che anche nel settore delle mostre, come nel mercato dell’editoria, esistono prodotti differenti che si rivolgono a pubblici diversi: mostre best seller e mostre di nicchia. Nell’introduzione alla ricerca si afferma, inoltre, che in Italia non vi è spazio per più di due progetti espositivi dotati di caratteristiche simili e allestiti simultaneamente in aree distanti non più di 300 km. Il mercato è piccolo e il pubblico, come si è desunto dai dati sulle frequenze di visita, è prossimo al raggiungimento di soglie di saturazione quasi fisiologiche.

E’ chiaro che le mostre non sono di per sé un male; è l’uso che se ne fa che è sbagliato. Osserva l’ICOM, per esempio, che i musei italiani, a differenza di quelli stranieri, sono spesso privati della possibilità di organizzare mostre proprie, legate alle collezioni del museo e all’identità stessa del museo, considerando che esso è, o dovrebbe essere, un organismo vivo, centro di numerose attività, che spaziano dallo studio al restauro, dall’accoglienza ai progetti didattici. Su questo obiettivo, ancora lontano da raggiungere, dovrebbero puntare l’attenzione le amministrazioni pubbliche e dovrebbero essere concentrate le risorse economiche disponibili, piuttosto che guardare al riscontro immediato, ma anche molto fugace, del grande evento di successo fine a sé stesso.  

Si potrebbero citare alcune eccezioni, ma senza far torto ad altri mi piace qui ricordare il Museo Archeologico dell’Alto Adige, con sede a Bolzano, che dal 1998 ad oggi è stato visitato da quasi 3 milioni di persone da tutto il mondo, pur con una lieve flessione negli ultimi anni, circostanza comune a quasi tutti gli istituti museali. Il Museo, accanto alla mostra permanente sulla mummia del Similaun, conosciuta come Ötzi, e all’allestimento fisso che espone reperti dal Paleolitico fino all’Alto Medioevo, ospita anche mostre temporanee, convegni e conferenze, sulla base di un programma annuale sempre molto ricco e articolato, con eventi che si ripetono ogni mese, sempre coerente, soprattutto, con i contenuti e le caratteristiche del museo. Sicuramente un esempio di museo dinamico, operoso, perfettamente integrato nel proprio territorio, da imitare anche dal punto di vista organizzativo da tanti altri musei italiani, se tutti avessero le risorse economiche necessarie.

Ritornando al documento del giugno 2008, consultabile nel sito ufficiale dell’ICOM Italia (www.icom-italia.org), vi sono riportate anche sei raccomandazioni, rivolte alle amministrazioni pubbliche e a tutti i cittadini. Riassumendone i contenuti, l’ICOM “chiede alle Pubbliche amministrazioni, alle Fondazioni ex-bancarie e ad altri sponsor/mecenati di distinguere i finanziamenti per le mostre-evento effimere e commerciali da quelli per le istituzioni culturali permanenti e di finanziare queste ultime con maggiore costanza e altrettanta generosità, visto il loro duraturo ruolo educativo e sociale verso i più diversi tipi di pubblico e il dovere di conservare integri (anche moralmente) i patrimoni dei musei per le prossime generazioni. I finanziamenti agli eventi effimeri non possono soverchiare e annientare quelli alle istituzioni culturali permanenti; pena il rischio di cancellare le indispensabili diversità culturali.”  

Vengono sollevati, come abbiamo già accennato, anche problemi deontologici: “Le domande che ci poniamo sono gravi: dove stanno andando alcuni grandi musei? È ammissibile che essi prestino a pagamento le proprie opere?”. Il prestito di opere a pagamento, infatti, oltre a scontrarsi con il Codice deontologico dei musei, come si è detto, comporta due grandi rischi: un aumento generale dei costi a scapito delle istituzioni meno dotate di risorse finanziarie e che, quindi, resterebbero escluse da queste attività; il rischio della privatizzazione delle mostre, “antitetica al concetto di museo come pubblico servizio […]. Nel momento in cui le collezioni, fondamento e ragion d’essere del museo, sono piegate a una logica di pura redditività il fine pubblico del museo passa in secondo piano, sostituito da una logica di profitto”. Un profitto che, però, non è a vantaggio del territorio o della collettività, mentre gli oneri ricadono, spesso, anche oltre il 50% del totale, sugli enti pubblici e quindi, conseguentemente, sui cittadini. Si richiede, pertanto, anche più trasparenza in tutto il processo di organizzazione e di allestimento dei grandi eventi. Se i cittadini, in ultima analisi, contribuiscono ai costi che tali manifestazioni comportano, allora è giusto, come suggerisce l’ICOM, “rendere pubblici e trasparenti i bilanci delle mostre e svolgere indagini prima e dopo le mostre sul gradimento del pubblico e sull’impatto turistico, economico e culturale complessivo sul proprio territorio di tali eventi, anche nel medio-lungo periodo. Ovvero adottare metodi di indagine e indicatori di successo o insuccesso complessi, quali i Balanced Scorecards (BSC), superando i limiti della contabilità economico finanziaria tradizionale”.

Dubitiamo che dal 2008 ad oggi qualcosa sia cambiato ma si spera che le raccomandazioni dell’ICOM, portavoce di tutte le associazioni museali italiane, siano finalmente accolte da chi ha il potere di alimentare o di spegnere ogni sano impulso proveniente dal mondo museale italiano.

Caterina Pisu (ArcheoNews, giugno 2010)

Per una presenza attiva dei musei nei social network

La sfida dei nuovi linguaggi comunicativi


Il MoMA, il British Museum, i Musei Vaticani, il Museo Nacional del Prado, il Louvre, la Galleria Borghese, il Tate, il Museu Picasso di Barcellona, sono solo alcuni dei più grandi musei mondiali presenti su Facebook e su Twitter. La presenza dei musei nei social network è coerente con lo sviluppo esponenziale che ha avuto la rete in questi ultimi anni. Dalla nascita di una delle prime reti sociali, the Well, durante gli anni Ottanta, sono trascorsi più di trent’anni, ma è dal 2004, anno della fondazione di Facebook, e poi dal 2006, con la nascita di Twitter, i due social network più seguiti, che la socializzazione in rete può essere considerata il fenomeno culturale di massa del nuovo millennio.

Il potere dei social network è soprattutto quello di evidenziare gli interessi comuni che legano gruppi di individui, e questo porta alcuni innegabili vantaggi che sono peculiari degli ambienti virtuali: innanzitutto l’abbattimento delle barriere socio-culturali; comunicare attraverso internet riduce le distanze interpersonali, mentre nella comunità “reale” i condizionamenti socio-culturali sono sempre molto attivi. Il secondo vantaggio è quello del numero elevatissimo di persone che sono presenti in una comunità virtuale e che, grazie a questi strumenti telematici, possono superare anche le distanze geografiche esistenti tra loro, incontrandosi in rete per scambiarsi qualsiasi tipo di opinione.

Inevitabilmente, date le sue potenzialità, il mondo dei social network è divenuto un mercato appetibile per molti gruppi commerciali, per le aziende e per qualunque altro soggetto che abbia necessità di promuovere un prodotto o un’idea sfruttando l’altissima visibilità offerta dalla rete. Non a caso anche alcuni partiti politici o singoli politici, utilizzano i social network per auto-sponsorizzarsi. Ed è forse anche questo il motivo per cui il fenomeno dei social network si è esteso anche in paesi in cui la libertà di informazione è limitata, come per esempio la Cina, con QQ, che conta oltre 300 milioni di utenti, o il mondo arabo, con Maqtoob.

Il rischio dietro l’angolo, a seguito della “scoperta” dei social network da parte del mondo della pubblicità e della self-promotion, potrebbe essere la perdita dell’originaria forma democratica della rete il cui valore è dato (o forse dobbiamo già dire, era dato) dalla libera circolazione delle idee. Non è difficile immaginare che il futuro porterà ad un controllo totale di queste potenzialità per ottenere vantaggi, consensi e guadagni.

A prescindere da questi aspetti negativi, è altamente positivo, invece, che la cultura possa trovare nella rete un potente elemento propulsore in grado di diffondere capillarmente idee innovatrici, espressioni del pensiero, dell’arte, della musica e di ogni altra scienza umana.

Il mondo museale non si è sottratto a questa nuova sfida culturale, sebbene l’avvicinamento ai social network sia ancora lento e, soprattutto in Italia, ci sia ancora una certa diffidenza nell’affrontare l’interazione con gli utenti. Ciò è sbagliato perché, come afferma il codice etico dell’ICOM per i musei, “al museo spetta l’importante compito di sviluppare il proprio ruolo educativo e di richiamare un ampio pubblico proveniente dalla comunità, dal territorio o dal gruppo di riferimento. L’interazione con la comunità e la promozione del suo patrimonio sono parte integrante della funzione educativa del museo”. L’interazione con la comunità, quindi, è una funzione pertinente alla natura stessa del museo, eppure spesso mancano strategie mirate per utilizzare al meglio gli strumenti più efficaci per raggiungere i propri utenti. Anche la diffusione dei siti web museali non è sempre soddisfacente. Molte volte la creazione del sito non è pianificata mediante uno studio preventivo che ne individui le finalità, né si ricorre a ricerche valutative che misurino il livello di soddisfazione dei visitatori. Manca, in poche parole, una cultura della promozione e della comunicazione.

Non è biasimevole che il mondo museale faccia ricorso più spesso alle strategie del marketing, purché queste siano un supporto valido per la sua promozione ma senza snaturare la sua missione, riducendola solo a fini commerciali. E allora, gettando un occhio all’ambiente del business, potrà essere utile, anche per chi si occupa di cultura, analizzare i risultati di una recente ricerca della Microsoft Digital Advertising Solutions, finalizzata allo studio dei comportamenti delle persone che utilizzano i social network.

E’ interessante osservare alcune percentuali emerse da questa ricerca: il 47% degli intervistati usa i social network per approfondire relazioni con persone accomunate dai medesimi interessi. Un terzo dei frequentatori europei di social network visita questi siti almeno una volta al giorno e il 41% più volte nel corso della settimana. Impressiona, quindi, la costanza della presenza dei visitatori nel network. Se dovessimo ipoteticamente applicare queste percentuali alla pagina di un museo in un qualsiasi social network, è chiaro che la differenza tra i visitatori reali e quelli virtuali, in termini numerici, è abissale, sebbene sia evidente che si tratti di due esperienze di conoscenza del museo completamente diverse. Eppure già solo questo dato induce a riflettere quale possa essere il ruolo dei musei in rete e soprattutto a pensare quale contributo aggiuntivo possa dare questa presenza virtuale rispetto alla visita reale.

Continuando con l’esame delle percentuali, la ricerca ha rilevato che, dopo l’adolescenza, è con l’aumentare dell’età che si allarga la rete di relazioni personali e il desiderio di condividere con gli amici aspetti della vita più profondi e importanti. È in questo momento, quindi, che i social network acquistano maggiore importanza nella vita delle persone. In media, il 25% dei frequentatori di social network europei dedica all’interazione sociale almeno 15-29 minuti, mentre circa un terzo vi dedica 30-59 minuti. Le donne tendono a utilizzare le reti sociali più degli uomini. In Europa, il 37% delle donne visita quotidianamente i siti delle reti sociali, mentre gli uomini sono solo il 27%. Rispetto alle donne, però, gli uomini tendono ad utilizzarli per necessità specifiche, ad esempio per allargare la rete delle opportunità d’impiego e di lavoro o per mantenere o raccogliere informazioni relative a hobby e interessi.

Il dato più importante rilevato dalla ricerca Microsoft è l’ampia pratica di segnalare un brand, cioè un marchio o una campagna pubblicitaria, agli amici. I consumatori si fidano delle indicazioni fornite loro dagli amici appartenenti al medesimo social network; ciò dimostra l’importanza del “passa-parola”, amplificato dalle potenzialità della rete. E se ciò è valido per l’universo aziendale, lo è senza dubbio anche per la cultura. Basta sostituire al brand aziendale, il marchio museale; alla pubblicizzazione di un prodotto, la promozione di un evento, di una mostra, di qualsiasi altra iniziativa culturale. Si tratta di un’opportunità enorme che sfrutta il sistema della “raccomandazione sociale” e il forte senso di fiducia all’interno delle comunità dei social network. In termini numerici, ben l’80% dei consumatori si fida dei consigli degli amici online: una percentuale tre volte superiore alla fiducia riposta nelle inserzioni pubblicitarie su mezzi tradizionali.

Infine, l’ultimo dato rilevato dalla ricerca è l’importanza del dialogo tra promotori e utenti all’interno dei social network. Si è detto che le persone utilizzano i social network per esprimere la propria individualità e quindi anche chi intende promuoversi presso tali utenti dovrà fare altrettanto. I musei nei social network dovrebbero abbandonare la tendenza a non interagire concretamente con i propri utenti e dovrebbero trasformare le proprie pagine che, spesso, sono soltanto pagine informative, in luoghi di incontro e di scambio reciproco, controllati da amministratori preparati. Questo è un punto su cui nel prossimo futuro sarà necessario lavorare, studiando le migliori e più adeguate forme di interazione con il pubblico.

Secondo la ricerca della Microsoft, infatti, “le persone all’interno di questo ambiente virtuale hanno potere: sono gli ideatori dei contenuti, i promotori delle conversazioni e gli sviluppatori della comunità. Pertanto, i marchi che desiderano aprire un dialogo, anziché un monologo, si inseriscono più facilmente in questo ambiente e possono trarre importanti vantaggi dalla sua capacità di contagio “virale”…Aprire il marchio alla libera espressione degli individui conferisce potere agli utenti e crea una positiva esperienza migliorando di conseguenza il loro gradimento”.

La ricerca suggerisce, quindi, una regola d’oro: “comportarsi come un frequentatore di social network. Uno dei principi fondamentali è che i migliori inserzionisti pubblicitari sui siti di social network saranno coloro che si comporteranno come i migliori utilizzatori di quest’ultimi, risultando perciò: creativi, onesti e cortesi, spiccatamente personali, rispettosi del pubblico, regolarmente aggiornati…..Per quelli che lo capiranno e lo faranno nel modo giusto, le opportunità saranno immense. Per quelli che non lo capiranno, il rischio è dietro l’angolo”.

Concludendo, i vantaggi dell’essere presente in rete, all’interno dei social network, possono essere innumerevoli, ma è necessario affrontare questa nuova forma di comunicazione sociale con la giusta preparazione, essendo consapevoli che la presenza in rete può amplificare ogni avvenimento sia in positivo che in negativo.

Caterina Pisu (ArcheoNews, marzo 2010)

L'occhio tecnologico che ci segue nei musei


Il Progetto Miranda della Fondazione Fitzcarraldo

Il rapporto museo/pubblico è regolato da meccanismi complessi, difficilmente standardizzabili per via delle numerose variabili che possono influenzarne i processi comunicativi. Comprendere questi meccanismi è fondamentale per la corretta funzionalità del museo e per il raggiungimento delle sue specifiche finalità; ciò è dimostrato dalla tendenza della ricerca museologica e museografica degli ultimi decenni ad approfondire queste tematiche anche con il concorso di altre discipline. Un aiuto è giunto dalle più recenti teorie sull’apprendimento, come pure dalle metodologie della ricerca sociale e psicologica e dalle nuove ricerche di marketing.

Nell’ambito degli studi sul pubblico dei musei sono state utilizzate, finora, soprattutto tecniche quantitative (questionari) e qualitative (focus group, interviste e indagini osservanti), svolte con varie modalità ma sempre in modo “tradizionale”, cioè senza l’aiuto di particolari tecnologie. In questi ultimi anni, però, il progresso dell’informatica e delle tecnologie multimediali ha condotto a risultati di grande efficacia anche nel settore degli studi sul pubblico dei musei. L’indagine osservante, in particolare, da circa cinque anni ha trovato un valido supporto in Miranda, un sistema tecnologico ideato e realizzato dalla Fondazione Fitzcarraldo in collaborazione con la Fondazione CRT (Cassa di Risparmio di Torino) e la Regione Piemonte (http://miranda.fitzcarraldo.it/).

Miranda si basa su un sistema software e su un dispositivo portatile, cioè un computer/palmare con schermo touch screen di 8 pollici. Il software contiene la mappa interattiva degli spazi museali su cui sono caricati dei punti sensibili, precedentemente determinati lungo il percorso di visita, che possono essere, per esempio, un pannello esplicativo, un oggetto esposto, un totem multimediale o qualsiasi altro obiettivo che si intenda monitorare. Tutti i dati vengono poi trasferiti in un database remoto (cioè accessibile via internet). Ciò permetterà di rilevare il livello di interazione tra pubblico e collezioni, i tempi di permanenza lungo il percorso espositivo, il potere attrattivo o repulsivo dei principali elementi dell’allestimento (reperti, vetrine, pannelli, didascalie, etc.), come pure potrà essere misurato il potenziale divulgativo del museo, quindi la capacità di comunicare al suo pubblico, e il grado di accessibilità dei visitatori alla fruizione dei servizi presenti nel museo. In termini sintetici, la procedura ha il fine di verificare quali sono i “punti caldi” e quali i “punti freddi” lungo il percorso di visita, permettendo di migliorarlo e di apportare correzioni ove sia possibile. Uno dei vantaggi immediati è la velocizzazione della procedura di indagine che potrà essere svolta periodicamente con maggiore comodità e completezza.

La preparazione del software deve necessariamente essere personalizzata in base alle esigenze del museo monitorato, i cui spazi dovranno preventivamente essere analizzati da esperti della Fondazione Fitzcarraldo che, successivamente, ne realizzeranno la mappa interattiva. Insieme ai responsabili del museo dovrà anche essere preventivamente concordato l’obiettivo dell’indagine.

La fase della rilevazione dei dati, cioè dell’indagine osservante vera e propria, sarà condotta da un operatore, munito del dispositivo portatile già descritto, che ha il compito di seguire i visitatori e memorizzarne il comportamento. Le informazioni acquisite potranno essere gestite ed elaborate nell’area web dedicata, nel modo che si riterrà più opportuno, scegliendo di visualizzare i dati con la veste grafica che si preferisce - tabelle, elaborati grafici, diagrammi - a seconda delle necessità e della finalità della ricerca che si intende condurre.

La Fondazione Fitzcarraldo non si limita alla vendita della licenza del software e del noleggio del dispositivo mobile per le rilevazioni, ma consente di avere assistenza anche nell’analisi professionale delle informazioni raccolte. Per poter condurre l’indagine nel modo più efficace possibile, anche gli operatori dei musei che sono oggetto della sperimentazione dovranno essere formati alla metodologia dell’indagine osservante e all’uso del software. Riuscire a coinvolgere pienamente nell’esperienza di indagine gli operatori dei musei, piuttosto che affidarne la procedura a ricercatori esterni, è stato sin dall’inizio uno degli obiettivi più importanti che il Progetto Miranda si è imposto. La sperimentazione ha avuto successo anche sotto questo aspetto e il parere degli operatori museali è stato di aiuto anche per il perfezionamento del software.

Una prima sperimentazione è avvenuta tra il 2005 e il 2006 in circa venti musei piemontesi, tra cui il Museo Nazionale del Cinema, il Castello di Rivoli – Museo di Arte contemporanea, la Pinacoteca Agnelli, ed altri ancora. Ora, dopo questa esperienza pilota, si punta ad estendere l’utilizzo di Miranda in altri importanti musei del territorio nazionale ed anche in spazi aperti, come aree archeologiche e centri storici. Per ora Miranda è stato utilizzato, oltre che nei musei piemontesi, anche nei Musei Capitolini e nel  Museo Civico di Zoologia di Roma.

Alessandro Bollo, Responsabile Ricerca e Consulenza della Fondazione Fitzcarraldo, tra i più qualificati studiosi di marketing e management culturale, cui mi sono rivolta per avere alcune delucidazioni sul progetto, ha evidenziato che Miranda è una tecnologia all’avanguardia anche a livello europeo; per questa ragione, infatti, nell’aprile 2007, fu scelto dal CNR per essere presentato come esempio di progetto di eccellenza a Tokio, nell'ambito della manifestazione Primavera Italiana in Giappone – Spin Off Tecnologici e Investimenti, la rassegna promozionale integrata, promossa ed organizzata dall'Ambasciata d'Italia a Tokyo. Sicuramente un motivo d’orgoglio per la ricerca italiana che in questo settore ha potuto impiegare al meglio le proprie potenzialità. L’augurio è che questa nuova tecnologia trovi sempre più applicazione e riscontro, in tempi brevi, presso tutto il sistema museale italiano, auspicando, a tal fine, un aiuto finanziario da parte del Ministero per i Beni e le Attività Culturali.

Caterina Pisu (ArcheoNews aprile 2010)

Il caso dell’Art Institute of Chicago: fuori tutti i volontari bianchi dal museo

Fonte dell'immagine: The Federalist Negli Stati Uniti, presso l’Art Institute of Chicago (AIC) si è aperto un caso che potrebbe essere d...