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digiti@amo il museo

Intervista agli studenti del Liceo Classico "Dante Alighieri" di Latina


di Caterina Pisu

La riuscita di un progetto museale non sempre dipende solo dalla sua qualità o dalla efficacia delle strategie di gestione. Ci sono altri elementi che ne determinano il valore e la durata del tempo, e uno di questi è indubbiamente la costruzione di un solido rapporto con le parti attive della propria comunità: le istituzioni locali, il settore produttivo, la scuola, le organizzazioni di sostegno sociale e di promozione culturale. Nel caso studio che qui vi presento, la scuola si è fatta partner attivo di un museo della propria città. Così nasce il progetto di alternanza scuola-lavoro “digiti@amo il museo”, da poco iniziato con la collaborazione degli studenti del Liceo Classico Statale “Dante Alighieri” di Latina, ai quali è stato chiesto di rendere social il Museo Civico “Duilio Cambellotti”, nella propria città, aumentandone in tal modo la visibilità e creando i presupposti per un dialogo interattivo con i cittadini e, in generale, con tutti i visitatori.



Il Museo Cambellotti di Latina è un museo importante, nato nel 2005 per custodire un primo nucleo di opere di Duilio Cambellotti, questo poliedrico artista - scultore, pittore, illustratore, ceramista e architetto - attivo tra la fine dell’Ottocento e gli anni Cinquanta del secolo scorso. Nonostante la rilevanza delle sue collezioni, come tanti musei italiani, anche il Museo Cambellotti deve fare i conti con un problema di visibilità online; era necessario, pertanto, ricercare soluzioni che guardassero al web e, in particolare, alla comunicazione social.  Dopo la creazione del sito web, nel dicembre 2015, è arrivato il progetto “digiti@amo il museo”, in cui la novità è data soprattutto dal coinvolgimento, nell’operazione, degli studenti del Liceo Classico Statale “Dante Alighieri” di Latina. Il progetto è stato elaborato come parte del Piano Triennale dell’Offerta Formativa (PTOF), con l’obiettivo di sviluppare competenze di cittadinanza attiva con carattere di orientamento ai fini del lavoro. 



Il Liceo "Dante Alighieri" è molto attivo: gli studenti hanno ideato e gestiscono anche il blog della scuola, intitolato "Il Classico Giornale"la pagina Facebook e l'account Twitter.

Ho rivolto alcune domande a Emanuela Macci e Aurora Rocco, due studentesse del Liceo “Dante Alighieri” (I D) cercando di capire, con il loro aiuto, il vero significato di un’esperienza sicuramente fuori dal comune.

La vostra collaborazione con il Museo Cambellotti consiste nella elaborazione di una strategia di promozione d’immagine e di miglioramento della comunicazione digitale attraverso i social media. Come vi siete preparati ad affrontare questo compito? Vi siete ispirati a esempi già collaudati nel settore della comunicazione museale?

Certamente, quando ci è stato presentato, questo progetto ci è sembrato molto difficile da realizzare, ma ci siamo presto ricreduti. Prima di iniziare, infatti, abbiamo seguito per una settimana delle lezioni teoriche ed abbiamo avuto degli incontri con dei tutor esterni. Già durante questa settimana abbiamo constatato quanto questo progetto fosse dinamico e pratico: più che lanciarsi in tradizionali e noiose lezioni, i tutor ci hanno fatto vedere esempi di musei, sia molto famosi a livello internazionale sia quelli locali poco conosciuti, dalla cui digitalizzazione abbiamo preso spunto per il nostro progetto.

- Come vi siete organizzati? Avete creato dei gruppi di lavoro? I vostri riferimenti sono stati gli insegnanti e i curatori del museo o anche specialisti esterni?

Prima di iniziare ufficialmente il progetto, abbiamo eseguito un test attitudinale in base al quale siamo stati inseriti in gruppi diversi. I gruppi sono quattro: il primo gruppo acquisisce le fonti necessarie direttamente nei musei, rese in seguito accessibili sui social network dal secondo e terzo gruppo, attivi presso il FabLab e Mixintime, rispettivamente uno spazio di condivisione e di lavoro e uno studio di produzione cinematografica per creazione di promo e video. Infine, il quarto gruppo si occupa della parte burocratico-amministrativa. Ci hanno seguito ed aiutato sia gli insegnanti che specialisti esterni: il prof. Vincenzo Scozzarella (direttore del Museo Cambellotti), gli avvocati Francesca Coluzzi e Gabriella Guglielmo, il prof. Nanni, la prof. Mandarano, il dott. Francesco Maglione, Francesco Timpone del Fablab Latina, i graphic designer Daria Giovannetti e Giulia Volino e Amilcare Milani, titolare di Mixintimegroup.

- Nel corso del progetto “digiti@amo il museo”, sicuramente avrete l’opportunità conoscere più da vicino il museo non solo dal punto di vista delle collezioni ma anche da quello della gestione; sarete già entrati in contatto, quindi, con il “dietro le quinte”, un aspetto che solitamente non è visibile al pubblico. Questo ha cambiato il vostro modo di vedere i musei?

Sì, decisamente! Quest'esperienza ha cambiato il nostro modo di visitare i musei. Per esempio, recentemente abbiamo fatto un viaggio d'istruzione e in ogni museo in cui siamo entrati ci è venuto naturale fare attenzione a come il museo fosse organizzato e ad eventuali errori logistici, oltre ad aver fatto caso alla loro presenza sui social network.

- Prima di questa esperienza, vi era mai venuta l’idea di visitare un museo di vostra spontanea volontà, senza esservi condotti dalla scuola o dalla famiglia?

Certamente!

- Secondo il vostro parere e in base all’esperienza che state acquisendo nello svolgimento del vostro progetto, che cosa può fare un museo per apparire più “interessante”, soprattutto agli occhi dei giovani?

Se fino a pochi anni fa la miglior pubblicità era il passaparola, ora sono certamente i social network. Se gestiti bene, questi nuovi mezzi di comunicazione sono in grado di portare visibilità in poco tempo a una straordinariamente ampia gamma di persone.  E poi ovviamente, insieme a una nuova ed efficace strategia di comunicazione, è necessario che i musei siano un punto di riferimento culturale dove i cittadini e i giovani possano assistere e partecipare a mostre, eventi, dibattiti, incontri, concerti, spettacoli ecc. Solo con una totale apertura (sia virtuale che reale) i musei possono essere luoghi di vivaci incontri culturali.

- Quale aspetto del progetto “digiti@amo il museo” vi sembra più entusiasmante?

Con questo progetto ci siamo avvicinati molto all'aspetto storico-artistico della nostra città. Adesso ne siamo consapevoli e il nostro intento è quello di diffondere quest'aspetto ai nostri concittadini: è una bella sfida, ma è anche entusiasmante e stimolante perché in un certo senso è come se ci venisse offerta la possibilità di cambiare qualcosa a Latina. E noi faremo del nostro meglio per non sprecarla.


Questo progetto, nel suo complesso, ha messo in evidenza quanto sia importante che i musei non si limitino ad accogliere le scolaresche in gita, ma che si instaurino seri progetti di collaborazione coordinata e continuativa con le scuole. Il museo può essere l’aula in più in cui gli studenti possono realizzare progetti e iniziative a carattere culturale e sociale, sperimentando e producendo nuove idee. Ci sono Paesi, come la Russia, in cui per tradizione alcuni musei possiedono delle scuole proprie, anche dei licei (si veda, al riguardo, la mia intervista a Vladimir Ilytch Tolstoj); in Italia basterebbe essere in grado di utilizzare l'affinità e la complementarietà tra le due istituzioni per la creazione di progetti reciprocamente vantaggiosi. Il caso del Liceo Classico “Dante Alighieri” di Latina è un esempio illuminante che si spera possa avere molti imitatori.


Silvana Sperati illustra il metodo Bruno Munari

Riporto qui un’intervista a Silvana Sperati, presidente dell’Associazione Bruno Munari, pubblicata sulla rivista online La vita scolastica.Bruno Munari fu artista, designer e scrittore tra i maggiori del secolo scorso. Dedicò un interesse particolare al mondo dell’infanzia e dell’educazione. Alla scuola di oggi consegna una proposta assai attuale: il laboratorio come luogo della migliore educazione, la creatività come “ricerca sincera di varianti”, un metodo che risiede nel “creare relazioni tra gli elementi conosciuti”. L’Associazione Bruno Munari ne prosegue ufficialmente il metodo e la ricerca che indicò l’artista. Promuove seminari, laboratori, eventi, mostre in Italia e nel mondo ed è l'unica deputata alla formazione sul Metodo Munari. Per maggiori informazioni è possibile consultare il sito www.brunomunari.it.
Foto tratta da:
http://www.artribune.com/2014/03/munari-artista-politecnico-in-attesa-della-grande-mostra-a-milano/3-614/
  
Una sua intervista a Bruno Munari del 1997 si chiude con questa domanda: “Munari è per tutti o per pochi?”. E Munari risponde: “Mah, io direi per tutti”. Che cos’è oggi Munari per la scuola?

Intanto vorrei dire che, secondo me, questa risposta che diede Munari: “Mah, io direi per tutti” descrive in modo assolutamente chiaro il pensiero dell’artista. Ho motivo di credere che negli ultimi anni della sua vita Bruno Munari abbia riservato un’attenzione particolare al mondo dell’infanzia e all’educazione. Diceva lui stesso che quello che voleva restasse era il laboratorio. In questa sua affermazione, io riconoscevo l’accezione vera del laboratorio, come luogo, spazio, tempo, occasione per la costruzione della conoscenza a partire dalla sperimentazione. Lì, nel laboratorio, c’è Munari. E nel laboratorio c’è gran parte del futuro di tutti noi che si costruisce qui e ora attraverso la migliore educazione, proprio quella che ci venne insegnata da questo grande artista.
Pablo Picasso lo paragonò al genio di Leonardo da Vinci, perché si esprimeva con agilità in tanti settori (l’arte, la grafca, la scultura, la scrittura, la progettazione...) e per la tipologia di pensiero, così attenta alla conoscenza, che sempre espresse in tutti i campi. Nonostante questa poliedricità e intensità, Munari sente sempre, e lo ribadisce nell’intervista, di voler essere “per tutti”. Questo vuol dire che dalla lezione di Bruno Munari possiamo trarre anche delle indicazioni necessarie al mondo della scuola. Perché la scuola cos’è, se non il luogo deputato alla costruzione del sapere? Certo si va a scuola per imparare, ma soprattutto per scoprire, per aguzzare la curiosità, per conoscere. Ecco io credo che nell’approccio che Bruno Munari mostrò nei laboratori possiamo trovare indicazioni per portare in aula l’apprendimento, in senso pieno. E questo atteggiamento è quello richiesto proprio oggi dalla scuola, non solo italiana, ma anche europea, quando insiste su quello che viene defnito “imparare a imparare”: quindi fare in modo che l'individuo apprenda, fin da piccolo, a diventare fautore del proprio apprendimento.

Foto tratta dal sito http://www.labogattomeo.it/?page_id=279

L’Associazione di cui è presidente lavora per la comprensione e la diffusione del “metodo Munari”. Vuole illustrarlo ai nostri lettori?

Proverò, attingendo ai testi di Munari e in particolare al suo libro Fantasia (Universale Laterza, Bari, 1977). Qui Munari prova a defnire alcune parole molto spesso confuse tra di loro: fantasia, immaginazione, creatività, invenzione. Quando parla della fantasia, Munari dice che è la facoltà più importante di tutte, perché ci permette di fantasticare di cose e di oggetti che possono anche essere assolutamente irrealizzabili. Si parla di una fantasia che va a briglie sciolte, dunque, di una possibilità del pensiero in cui tutto può essere immaginato. Però, quando parla di fantasia, Munari dice anche che la fantasia usa lo stesso metodo, e sottolinea proprio la parola metodo, di altre facoltà: per esempio dell’invenzione, o della creatività. E dunque: che cos’è questo metodo? Questo metodo, dice Munari, risiede nel “creare relazioni tra gli elementi conosciuti”.
Dunque la persona, prima di tutto, è invitata a “costruirsi” delle informazioni attraverso la sperimentazione che avviene nel laboratorio e nel vissuto quotidiano. Nel laboratorio di Munari posso esplorare un materiale, una tecnica, per scoprire tutto quello che si può fare. Questo mi dà la possibilità di “costruirmi” delle informazioni. Ma se queste informazioni rimanessero ferme, non utilizzate in nessun progetto – Munari dice “come un magazzino di dati inerti” – non servirebbero a nulla. Dunque l’importante è creare una situazione, un'attività che inviti ciascuno a creare relazioni tra queste informazioni, relazioni che poi portano a progettare, costruire, immaginare un qualcosa di nuovo.
Questo “qualcosa di nuovo” non deve essere necessariamente finalizzato, perché può essere anche qualcosa di cui ancora non immaginiamo un uso possibile. Munari dice: quando un oggetto è così preciso, descritto, come un trompe-l’oeil, non stimola il soggetto come un’immagine che invece può essere tante cose, per esempio un ippopotamo o una cavalletta. Massima apertura, dunque, verso materiali “imperfetti”, semplici e più vari possibile, in modo che il bambino possa realizzare sperimentazioni diverse. A livello educativo, inoltre, occorre tempestività: se un bambino riceve un’educazione che lo invita a vedere quello che si può fare con le cose fin da piccolo, è verosimile che manterrà questa attitudine per sempre. Se, invece, già nei primi anni a un bambino si dice: “Stai attento, No!... Si deve fare così, si deve fare cosà!... Il cielo è sempre azzurro... Il pulcino è sempre giallo... La mela è sempre rossa...”, quel bambino avrà poche possibilità di emancipare i propri pensieri, di contemplare le infinite variabili, di costruire i propri apprendimenti...

Tornando all’intervista del 1997, Munari dice che la creatività è “ricerca sincera di varianti”. Come possiamo tradurre, anche per il mondo della scuola, questa definizione?

Questa frase sulla creatività è molto bella e mi permette di precisare la risposta sul metodo che ho dato prima, perché ogni parola della frase è un elemento di metodo. La parola “ricerca” ci porta all'approccio scientifco, così vicino all’attenzione di Munari, che ha sempre cercato di analizzare ogni aspetto, di non dare nulla per scontato. L’atteggiamento del ricercatore è l’atteggiamento di colui che con curiosità guarda a tutte le espressioni che il mondo gli presenta. E Bruno Munari aveva fatto suo questo atteggiamento, manifestato anche con la grande attenzione che ha sempre riservato al mondo della natura. Per tutta la vita Munari osservò la natura, i suoi processi, i suoi cambiamenti, le sue variabili e io credo che dalla lezione di Munari ci venga anche lo stimolo di tornare alla natura con uno sguardo di stupore per tutto quello che ci può insegnare.

Questa ricerca, dice Munari, deve essere “sincera”. Una ricerca sincera è una ricerca “vera”. Dal nido all’università proponiamo ricerche viziate, non vere ogni volta che si dà il risultato per scontato. Per esempio: se provo a fare un’esperienza di mescolamento dei colori, come il blu e il giallo, so bene che il risultato sarà il verde, ma non posso fermarmi lì. Infatti quante variabili ci possono essere in quell’esperienza, a partire dall’intensità e tipologia dei pigmenti, da quanto blu e quanto giallo metto, dal materiale su cui spalmo, spremo o stendo il colore? In questo senso la dimensione della ricerca deve essere “sincera”. Perché la dimensione della ricerca “sincera” coinvolge, appaga l’individuo e, soprattutto, diventa realmente generativa di nuovi saperi. La ricerca non deve essere millantata, su questo dobbiamo essere molto attenti. Come il laboratorio: deve essere il luogo della ricerca, non può essere il luogo del “facciamo finta che facciamo la ricerca”. Ormai anche intorno alla parola “laboratorio” è andato un po’ a perdersi questo elemento costitutivo della ricerca: dobbiamo rileggere il senso delle parole, ritornare al loro significato come definizione di azioni realmente congruenti. “Ricerca sincera di varianti”, dice Munari. Ecco, qui entriamo nell’orizzonte molto creativo del “quanti ce ne sono” e del “come sono”. Proviamo a immaginare delle domande: un sasso: quanti ce ne sono di sassi?; è rosso: quanti ce ne sono di rossi?; fino a quando questo materiale che è rosso è rosso, e quando invece da rosso diventa scuro scuro, e forse stiamo passando nel marrone? La ricerca delle varianti mi “apparecchia davanti” le possibilità del mondo, ma insieme mi descrive anche i suoi confini, portandomi in quel territorio dello “sfumato” dove posso descrivere un fenomeno con un’esattezza che non è solo mero dato, numero, definizione ma consapevolezza del mondo. Entrare in questo tipo di processo significa prendersi in mano il gusto, la gioia dell’apprendere. E sarà proprio ritornando a questa gioia che potremmo dare ai nostri studenti una grande chance. Si tratta di un movimento da compiere all’insegna del festina lente, dove l’investimento nell’educazione, oggi, è l’azione più importante che possiamo fare.

Il caso dell’Art Institute of Chicago: fuori tutti i volontari bianchi dal museo

Fonte dell'immagine: The Federalist Negli Stati Uniti, presso l’Art Institute of Chicago (AIC) si è aperto un caso che potrebbe essere d...