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Quarto Convegno Nazionale dei Piccoli Musei: una sintesi



Si è concluso il Quarto Convegno Nazionale dell’APM, svoltosi l’11 e il 12 novembre ad Assisi, presso la Sala della Conciliazione del Palazzo dei Priori. Segnaliamo con soddisfazione un’ampia partecipazione generale, nonostante le pessime condizioni meteorologiche; siamo molto gratificati, inoltre, per il notevole interesse che questo appuntamento riscuote in modo crescente, ogni anno, tra gli specialisti, i responsabili di piccoli musei e il grande pubblico.


Tanti i temi discussi: le grandi potenzialità dei piccoli musei, ma anche le attuali difficoltà, le chiusure, la scarsità delle risorse e gli evidenti problemi di gestione. Le parole chiave che sono emerse sono state: esperienza, accoglienza, relazionalità, territorio, comunità locale (intervento di Giancarlo Dall’Ara). I piccoli musei sono un luogo vicino a noi, dove si vive un’esperienza leggera, positiva e coinvolgente come parte di un’esperienza più ampia legata al territorio (Giampaolo Proni); sono istituzioni che lavorano non solo per la conservazione della memoria culturale collettiva, ma anche per migliorare le condizioni di vita della comunità (Caterina Pisu). Si è parlato di come, grazie al web 2.0 e alle tecnologie ad esso legate, si stia affermando una nuova concezione di “participatory museum” in cui il pubblico può collaborare alla creazione di contenuti culturali (Elisa Bonacini). Ma un piccolo museo può esprimere tutte le sue potenzialità soltanto se è aiutato da una normativa efficace che non lo limita ma che valorizza le sue peculiarità (Anna Boccioli). Si è quindi focalizzata l’attenzione sul modo di comunicare del museo anche attraverso le varie forme in cui sono stati progettati il suo allestimento, alcune parti del suo edificio e l’architettura esterna (Valeria Minucciani). Come ogni anno, abbiamo dato ampio spazio alle esperienze di alcuni piccoli musei: dalla Casa Museo di Calimera (Silvano Palamà), che ha illustrato un museo realmente “diffuso” nel territorio e capace di coinvolgere i residenti, al Museo delle Necropoli rupestri di Barbarano Romano (Stephan Steingräber e Roberto Corzani), che promuove il patrimonio archeologico locale in sinergia con le altre realtà del territorio, a Biddas- Museo dei Villaggi Abbandonati della Sardegna (Sorso) (Marco Milanese), che non espone oggetti ma che racconta un problema, quello dello spopolamento, che ha origini antiche, e lo fa usando parole chiave, cercando di rendere di facile comprensione, anche per i più piccoli, un contenuto scientifico; infine, i “piccoli” musei di Roma e i loro problemi, spesso determinati da una normativa non adeguata e dalla fatica di trovare spazio in una città come Roma che è già un “museo all’aperto” (Lucrezia Ungaro). Anche quest’anno il nostro socio storico, Giorgio Gallavotti, ha animato il convegno con un suo intervento sul Museo del Bottone da lui stesso fondato e che, fin dalla nascita dell’Associazione Nazionale Piccoli Musei, è stato adottato come modello di piccolo museo accogliente e dinamico. 


Infine, i progetti: il primo, “Angeli per viaggiatori”, ideato da Stefano Consiglio, è basato sull’idea che i residenti ma, perché no, anche i piccoli musei locali, possono essere le migliori guide per i turisti; il secondo, Invasioni digitali, si propone di promuovere il nostro patrimonio culturale attraverso l’utilizzo di internet e dei social media, e mediante l’organizzazione simultanea e spontanea di numerosi mini-eventi su tutto il territorio nazionale (intervento di Fabrizio Todisco e Marianna Marcucci).
Purtroppo, per motivi tecnici, non è stato possibile effettuare il collegamento via Skype con Pascal Janin, Presidente della Red CIE de Centros de Interpretaciòn Etnogràfica, finalizzata allo sviluppo della coesione socio-culturale e al rafforzamento delle economie locali, anche attraverso i piccoli musei, della provincia di Cadiz, Andalusia, con cui siamo in contatto per cercare di avviare una collaborazione internazionale.



Il convegno è stato aperto e concluso, come ogni anno, dal nostro Presidente, Giancarlo Dall’Ara, ed efficacemente coordinato dal Vicepresidente Gennaro Pisacane.


Un ringraziamento particolare ai rappresentanti dei piccoli musei che sono giunti ad Assisi per prendere parte al convegno, in particolare Rino Lombardi, Presidente del'Associazione Museo della Bora di Trieste, Laura Minici Zotti, Direttrice del Museo del Precinema di Padova e Cristina Vadalà, Responsabile Formazione della Società Cooperativa Sistema Museo dell'Umbria. Ringraziamo in modo speciale la Coordinatrice di Icom-Liguria, Fiorangela Di Matteo, che ha voluto cortesemente essere presente ai lavori del nostro convegno. Ci scusiamo per eventuali dimenticanze.



Al termine di questa due giorni, ci apprestiamo, ora, ad esaminare le prime candidature degli enti locali e dei piccoli musei che desiderano ospitare il Quinto Convegno Nazionale dei Piccoli Musei, nel 2014, in data da stabilire. Sottoponeteci le vostre candidature, contattandoci all'indirizzo di posta elettronica apmusei@gmail.com



E' on line il programma definitivo del Quarto Convegno dell'Associazione Nazionale Piccoli Musei. L'appuntamento è per lunedì prossimo, 11 novembre, ore 15.00, presso la Sala della Conciliazione, Palazzo dei Priori, Assisi.
Ricordo che chi sarà impossibilitato a raggiungerci ad Assisi, potrà seguire il live tweeting (@PiccoliMusei). 
Se desiderate intervenire su Twitter, vi preghiamo di utilizzare l'hashtag #piccolimusei2013.


Dal blog dei Piccoli Musei:

Piccoli Musei: L'accoglienza nei musei è un "servizio aggiuntivo"...


"Musei Accoglienti" è il filo conduttore dei Convegni dell'Associazione Nazionale Piccoli Musei. Il prossimo è in programma ad Assisi l'11 novembre pomeriggio, nella sala della Conciliazione nel palazzo del Comune. L'ingresso è gratuito. Vi aspettiamo!

Il live su Twitter del Quarto Convegno Nazionale dei Piccoli Musei



A distanza di sole tre settimane dall'inizio del Quarto Convegno Nazionale dei Piccoli Musei, in programma ad Assisi l'11 e il 12 novembre 2013, ci prepariamo al live su Twitter. Chi non potrà essere presente, ci segua su Twitter, attraverso la pagina di @PiccoliMusei
Raccomando di utilizzare l'hashtag #piccolimusei2013 per partecipare al live e per intervenire con i propri commenti. Vi aspettiamo!

Notizie dal Museo del Bottone

Dopo l'intervista a Giorgio Gallavotti, direttore del Museo del Bottone di Santarcangelo di Romagna, dello scorso 16 giugno, mi piace continuare a seguire questo piccolo, incredibile museo, che è capace di attrarre tanti visitatori da tutto il mondo.
Il direttore, con l'entusiasmo e la passione che lo contraddistinguono, ha scritto un comunicato stampa per far conoscere gli ottimi risultati ottenuti, fino ad oggi, nel corso del 2013, e che mi pregio di pubblicare in questo blog.


MUSEO DEL BOTTONE COMUNICATO STAMPA 10/2013
Nel mese di settembre si è interrotta la seria positiva in crescendo delle visite al Museo del Bottone.
Nel mese di settembre 2012 con un  +37.84% avevamo toccato la rispettabile cifra di 3395 firme.
Quest’anno ci siamo fermati a 3052: -11,24%. Sono venuti a mancare numerosi gruppi dei russi dirottati da Rimini a Pisa ed a Roma.
Nonostante questo, il 2013 continua ad essere un anno d’oro per il Museo. Su base annua abbiamo un +33,58% di firme ed alla fine di settembre 2013 abbiamo superato con oltre tre mesi di anticipo tutte le firme del 2012. Le firme totali dal 10-05-2008 sono 110.717. Provate a fare il conto se teniamo presente che su due persone una solo firma.
Quest’anno la risonanza internazionale ha raggiunto ottimi livelli, oltre il 55% dei visitatori sono stranieri.
Con l’arrivo della stagista Beatrice Morellini siamo ora in grado di fare le visite guidate gratuite in francese, tedesco ed inglese. Abbiamo le informazioni cartacee in russo, cinese, bulgaro, oltre ai tradizionali francese, tedesco, spagnolo ed inglese
Pensate che siamo a conoscenza che almeno una ventina di persone, europee e non, hanno conosciuto il Museo attraverso i mass media o internet, nei loro paesi. Le pubblicazioni tedesche sono diverse; arrivano i tedeschi con il giornale e chiedono se quello che è scritto sul loro giornale è questo Museo.
La notorietà internazionale ha fatto sì che anche i reperti siano aumentati, con i bottoni del 1700-1800 arrivati dalla Polonia, dalla Russia, dal Tibet, dal Giappone e dalla Cina. Dal Giappone un Netsuké in avorio dei primi del '900, regalato da Marta Leoni di Faenza; la mia amica giornalista cinese Tian Pingsha mi ha portato i bottoni con fregi da divise di generale dell’esercito cinese. Aspetto la fotografia del generale per farne un quadro ed esporlo al Museo.
Si è arricchita anche la biblioteca con un catalogo di bottoni dalla Danimarca e due dalla Polonia.
Ad Assisi, l'11-12 novembre 2013, parteciperò al 4° convegno nazionale dei Piccoli Musei. Io relazionerò alle 9,30 del 12 novembre ed ho a disposizione circa 30  minuti per presentare i piccoli musei ed il Museo del Bottone.
Sullo schermo, dopo l’immagine di Santarcangelo  si vedranno i bottoni con la figura di Maria Antonietta, Mozart, Giapponesi del 1600, il bottone disegnato da Pablo Picasso negli anni 1920 per Coco Chanel, i bottoni dei Papi, quello di Maria Luisa D’Austria, la seconda moglie di Napoleone, e quello del loro figlio l’Aiglon e tanti altri.
Dopo Castenaso, Battaglia Terme ed Amalfi, questa di Assisi è un’altra vetrina nazionale per questo piccolo oggetto che incanta i visitatori.
Non è finita qui, perché nel 2014 vi sono in programma altri avvenimenti.
A Vicenza al Museo dell’oro, nel 2014-2015 saranno in mostra bottoni gioiello del Museo del Bottone, e un video. Nell’ambito delle "Attività Didattiche della Università per la terza età" di Rimini nella sezione "Percorsi del pensiero e razionalità" il 31-01-2014 presenterò una relazione dal titolo "Cosa può mai dire un bottone".
E' abbastanza per essere soddisfatto, unitamente ai collaboratori, che ringrazio e che quest'estate si sono impegnati tantissimo. Siamo stati al servizio dei turisti mattino, pomeriggio e sera per oltre quattro mesi e credo che i santarcangiolesi, che quando hanno ospiti non mancano di portarli al Museo, ne siano orgogliosi.

Cordiali saluti

Giorgio Gallavotti
Direttore e fondatore del Museo del Bottone, il primo ed unico in Italia

Santarcangelo 03-10-2013





Dall'alto:

Netsukè giapponese dei primi del 1900 in avorio per kimono dono di Marta Leoni

Bottoni giapponesi del 1600:  il primo in ebano, avorio e strati di madreperla, con corniola lavorata a buccia d'arancia per il drago

Bottone di Maria Antonietta, del 1800. Miniatura sotto vetro con 8 zaffiri bianchi

Musei liberi e non politicizzati: la realtà britannica




di Caterina Pisu


Nel 2001, la giornalista e scrittrice Josie Appleton, scrisse un articolo che potrebbe sembrare disorientante per i museologi, in maggioranza assertori convinti dell’importanza del ruolo di mediazione e di inclusione sociale dei musei nell’ambito delle comunità. 
In realtà, un po’ di autocritica non fa mai male e allora mi sembra opportuno riportare qui il pensiero della Appleton che, a distanza di anni, può risultare ancora di una certa attualità, sebbene le sue considerazioni facciano specifico riferimento all’ambito britannico e ad un determinato momento storico.

Il tema che oggi propongo è il primo di una serie che desidero dedicare al ruolo sociale dei musei, in vista del Quarto Convegno Nazionale dei Piccoli Musei, in programma ad Assisi 11-12 novembre 2013, in cui si affronterà, tra gli altri, anche questo argomento, in relazione ai cosiddetti “musei di quartiere” (v. qui il programma provvisorio).

Nell’articolo intitolato “Museums for the people”,  pubblicato su http://www.spiked-online.com/site/article/10827/, la Appleton si chiedeva perché l’inclusione sociale fosse diventata una delle finalità perseguite dai musei, in realtà non per una spinta venuta dall’interno del settore museale, ma a seguito della politicizzazione dei musei (si fa riferimento, come già accennato, al Regno Unito).
A seguito della pressione del governo New Labour, infatti, non solo musei e gallerie, ma anche altre istituzioni pubbliche, come gli ospedali, le università e le scuole, furono incoraggiati a considerare l’inclusione sociale come una delle proprie funzioni essenziali. Fu così che i musei cominciarono a riorganizzarsi cercando di occuparsi il più possibile delle relazioni con la comunità.
Per la Gran Bretagna dei New Labour la parola “inclusione sociale” sembrava essere di gran moda, ma restava comunque un concetto oscuro, non pienamente compreso, che nasceva piuttosto da un’ansia del pericolo di frammentazione sociale e dalla possibilità che potessero esistere individui isolati, senza un proprio scopo nella vita, e che quindi dovevano assolutamente essere aiutati. Laddove esistono persone abbandonate a se stesse è più alto, infatti, il livello di criminalità, più basso il livello culturale e la pratica di attività sportive. In sostanza, si possono creare situazioni o fasce sociali in cui la qualità di vita è molto bassa.

Per ovviare a questo inconveniente, il Dipartimento britannico per la Cultura, i Media e lo Sport (DCMS), adottò una strategia che vedeva i musei e le gallerie coinvolti in prima linea nell'impegno sociale, tesi a responsabilizzare le persone nel saper individuare il loro posto nel mondo e nel riuscire a svolgere un ruolo attivo nella società.

Il Group for Large Local Authority Museums (GLLAM) sostenne questa strategia, nella convinzione che i progetti di inclusione sociale generino maggiore autostima, fiducia e creatività, contribuendo a sviluppare una vita sociale più attiva e soddisfacente.
Ma perché i musei hanno così prontamente adottato tra le proprie funzioni primarie, l’inclusione sociale? Forse perché, secondo la Appleton, la professione museale in quel momento, quando il partito del New Labour saliva al potere, stava vivendo uno stato di profonda crisi e di confronto aspro con il resto della società.
I musei avevano un grande bisogno di auto-giustificare la loro esistenza perché per almeno una decina d’anni erano stati messi sotto processo dalla società per il loro ruolo di “badanti” e per la loro troppo stretta connessione con lo studio e l’interpretazione di “oggetti”, che li aveva tenuti isolati dalla concretezza della vita reale.  
Le critiche erano state talmente dure che, a destra, l’ex Primo Ministro Margaret Thatcher aveva definito i musei “inutili”, e pertanto aveva cercato di “modernizzarli” e di renderli più “efficienti”, introducendo le logiche del marketing per la loro gestione e per la valutazione dell’efficacia del lavoro svolto. A sinistra, invece, si continuava ad attaccare i musei, considerandoli istituzioni tenute in vita da élite ideologiche che tendevano ad escludere le masse.
A questo punto, il Dipartimento per la Cultura, i Media e lo Sport dovette affrontare con decisione la crisi di identità dei musei. L’ordine del giorno fu, oltre che rendere esplicita la volontà di politicizzare i musei, il suggerimento di individuare, ogni anno, un tema sociale da mettere in luce e approfondire attraverso mostre o altri eventi di questo tipo.
Durante gli attacchi rivolti alla categoria, molti professionisti museali erano rimasti in silenzio. Forse erano talmente demoralizzati che i progetti di inclusione sociale a quel punto sembravano necessari non solo al pubblico ma soprattutto a se stessi. Grazie a questi progetti, infatti, il personale dei musei cominciò a sentirsi più utile e necessario, e a ritrovare nuove energie. Qualcuno affermò di sentirsi “più connesso”, “più integrato” nell'ambito della comunità, forse più vicino alla realtà di quanto non fosse prima, quando si occupava solo delle collezioni espositive.
Ma questa nuova funzione del museo era realmente un bisogno dei professionisti museali e della società o era stata imposta dall'esterno, dopo la demolizione del vecchio modello di museo, e poi attivamente promossa dalle nuove élite museali?
Nel Regno Unito le nuove generazioni di dirigenti museali avevano ricevuto la loro formazione soprattutto nei master della Leicester University; alcuni di essi provenivano dagli studi storici sociali che avevano una chiara impronta di sinistra e avevano iniziato le loro esperienze professionali presso i musei di enti locali. Essi propendevano, dunque, alla partecipazione attiva della gente comune nelle attività promosse dai musei.
Consentire ai visitatori di diventare una parte importante del lavoro di un museo o di una mostra, venne visto come una necessaria e radicale trasformazione dei musei in direzione dei bisogni della società.
Peter Jenkinson sembrava quasi citare “Stato e rivoluzione” di Lenin quando descriveva le “fasi della caduta del potere” dei professionisti museali conclusasi con la soluzione finale più radicale, forse utopica, della creazione di un museo veramente autonomo e popolare,  non più in mano ai professionisti museali.
E’ curioso – afferma la Appleton - che i musei specialistici potessero ipotizzare addirittura l’eliminazione dei professionisti museali a favore di una gestione collettiva dei musei!
In realtà, lungi dal determinare trasformazioni sociali così radicali, questi progetti hanno avuto il merito soprattutto di far sentire meglio le persone con se stesse. Nel contesto storico del declino industriale, la storia sociale dei musei aveva contribuito a rinnovare l’orgoglio della gente attraverso la riscoperta e il racconto delle loro storie, proprio nel momento in cui sembrava che l’orgoglio non esistesse più.
E’ significativo che nel 1983, nonostante fosse stato perso un referendum promosso per tentare di tenere aperto un museo a cielo aperto in un villaggio minerario del Galles, l’anno seguente fu ugualmente istituito un museo del villaggio che evidentemente era considerato irrinunciabile per i curatori e gli amministratori della cittadina. Il curatore Gaynor Kavanaugh affermò che “essere senza storia è come essere ignorato e dimenticato. Un posto riconosciuto nella storia significa ritrovare la propria autostima e i propri valori”. 
Bill Silvester, che aveva istituito the Abbeydale Industrial Hamlet  a Sheffield nel 1970, disse a sua volta che “l'idea era di dare un museo ai lavoratori e ai loro figli, con lo scopo di ripristinare l'orgoglio, troppo spesso negato o rubato da altri, e di lasciarlo in eredità”.
I progetti di inclusione sociale hanno sempre cercato, dunque, di trasmettere la percezione che la collezione del museo appartenga ai membri della comunità, i quali hanno contribuito a raccontare la propria storia e quella del proprio territorio.
Il punto è che cosa succede quando i progetti di inclusione sociale diventano parte di un programma di governo. A questo punto non è più il direttore di un museo che autonomamente decide di aumentare l’autostima degli individui della comunità in cui opera, ma le nuove élite museali promuovono questi progetti per veicolare le politiche governative in ambienti per lo più  a rischio.
E la Appleton a questo proposito cita, come esempio, il progetto tessile per le donne asiatiche del Birmingham Museum and Art Gallery che, con il pretesto di coinvolgere le donne nella creazione di tessuti ispirati alle collezioni del museo, ha operato un’indagine tra esse incoraggiandole a parlare della loro salute mentale. Sarebbe stato difficile, infatti, che queste donne si rivolgessero spontaneamente a degli assistenti sociali, ma un’attività culturale  ha facilitato questo lavoro di utilità sociale.
E si possono citare anche altri casi di progetti simili rivolti a varie categorie sociali “a rischio”. Questa trasformazione del ruolo del museo all'interno della società trasforma inevitabilmente anche i contenuti del museo: i progetti di integrazione sociale, in pratica, potrebbero anche ignorare le attività su cui è stato "costruito" il museo stesso. Il rischio, allora, è quello di creare una distorsione dei principi fondamentali sui cui poggia l'istituzione museale. Il ruolo tradizionale del museo, di raccolta, studio ed esposizione dei manufatti, ha sempre avuto una solida base nella società; i collezionisti e l’establishment accademico sono stati coinvolti in questa attività e hanno sviluppato gli standard e le modalità di valutazione del lavoro dei professionisti museali. Ciò ha dato al museo una struttura ben definita, una sua ragion d'essere, e in tutto questo l’esposizione degli oggetti era la base sostanziale attraverso la quale il museo si metteva in relazione con il suo pubblico.
 Oggi, la funzione di inclusione sociale, essendo stata presa in consegna dalla politica - afferma la Appleton, può apparire poco ben definita, priva di un senso di direzione chiaro, non fondata su pratiche sperimentate e consolidate. Ciò determina spazi di interpretazione troppo ampi e talora ambigui. 
Il Rapporto del Group for Large Local Authority Museums sull'inclusione sociale, che fa riferimento all'ambito dei musei locali che sono in prima linea in iniziative di questo tipo, riferisce che “la definizione di inclusione sociale è problematica; è 'difficile da vedere e difficile da cogliere nel suo insieme; è un concetto che può essere definito e utilizzato variamente dal governo e dai diversi enti locali”.
Quando un concetto è “sfumato” o “sfocato”, la tentazione è quella di usare il righello per definirlo meglio. Il Group for Large Local Authority Museums ritenne che fosse necessario dare impulso a studi trasversali per precisare innanzitutto lo spettro d’azione più coerente in cui poteva essere attuata una politica di inclusione sociale, cercando poi di puntualizzare le metodologie e gli standard di lavoro da utilizzare in questo ambito. E’ vero, però, che anche il sistema più elaborato e preciso che sia in grado di misurare l’impatto sulla società dei progetti di inclusione sociale, non risolverà il nodo fondamentale che è quello delle motivazioni.
Le comunità, infatti, sono formate da persone che decidono spontaneamente se condividere alcuni aspetti della loro vita, non dietro una sollecitazione “ben orchestrata” e, soprattutto, con finalità politiche.
La conclusione della Appleton è dunque che sia i politici che i musei sarebbero fortemente aiutati in questo discernimento  se la politica cominciasse ad apprezzare i musei innanzitutto perché essi esistono e sono una realtà concreta, inserita nelle nostre società, cui non è necessario imporre dall'alto la direzione da seguire.

Specialmente in quest’ultimo punto mi trovo molto d’accordo con Josie Appleton. I cambiamenti culturali non si possono imporre con un decreto governativo, ma i musei, se sono percepiti come espressione e memoria della collettività, potranno trovare in se stessi le motivazioni per una trasformazione più o meno radicale, alla ricerca di modelli più adeguati ai tempi ed anche alle nuove esigenze sociali, senza rinunciare alle proprie peculiarità. 

I governi si dovranno preoccupare soprattutto di sostenerli con risorse adeguate e di favorire l'apporto di sempre nuove energie professionali, ben qualificate. 

Il caso dell’Art Institute of Chicago: fuori tutti i volontari bianchi dal museo

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