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La Rete dei Musei Municipali dei popoli: un modello attuabile anche in Italia?


La rivista online #emprendecultura (un progetto del portale Recursos Culturales), ha pubblicato un interessante articolo sulla Rete dei Musei Municipali dei popoli (Red de Museos Municipales de los pueblos) una iniziativa nata nel 2007 da un’idea dell’argentina Maribel García, che inverte la logica verticale dei musei classici per concentrarsi sulle persone stesse, interpretando lo spazio del museo come luogo di costruzione di una identità comunitaria. In questo nuovo tipo di museo, i protagonisti non sono le collezioni artistiche o storiche, non sono le opere d’arte o gli oggetti, ma sono le storie che si celano dietro di essi. Questi concetti derivano, in parte, dal pensiero del museologo Ariel Chiérico che è stato il primo a pensare ai “museos de los pueblos”, idea che è stata poi ampliata dall'attuale amministrazione cittadina grazie a Maribel Garcia che dirige la rete museale con il supporto della Subsecretaría de Cultura, Educación y Turismo di Olavarría (provincia di Buneos Aires).

Maribel García
Inizialmente la Garcia ha proposto al Sindaco di Olavarrìa di dare vita ad un progetto museale che prevedesse la partecipazione diretta della cittadinanza, affinché essa si appropriasse del museo per rivalorizzare la propria storia. Ogni comunità possiede caratteristiche proprie e storie che vale la pena conoscere, soprattutto in una nazione, l’Argentina, in cui si è avuta una grande immigrazione che ha portato qui persone di tante nazionalità, in particolare tedeschi, cecoslovacchi, spagnoli e italiani.
Finora la rete conta sette musei: Museo Municipal de sitio Calera la Libertadora de Sierras Bayas, Museo Municipal Ariel Chiérico de Colonia Hinojo, Museo Municipal de la Estación de Sierras Bayas, Museo Municipal Miguel Stoessell Muller de Colonia San Miguel, Museo Municipal de la piedra Ema Occhi de Sierra Chica, Museo Municipal de Espigas, Museo Municipal de Hinojo.
La caratteristica che li differenzia dai musei tradizionali è che  la volontà di creare uno spazio comune parte dagli stessi abitanti. Il progetto del museo, quindi, non è “imposto” dall’istituzione locale, ma è la gente che partecipa al processo di trasformazione del luogo, raccoglie gli oggetti, li crea e li documenta, nomina il direttore.
Non si tratta, quindi, di esperti con specifiche competenze in ambito museologico ma di persone che amano e che difendono il loro spazio e quando svolgono una visita guidata possono attingere alla propria vita e alla propria esperienza.

Foto tratta da: http://www.lu32.com.ar/nota/17622/los-chicos-del-colegio-nuevas-lenguas-visitaron-los-museos-municipales-de-los-pueblos
Per Maribel Garcia, la creazione di un museo vivo è innanzitutto un compito antropologico “in cui occorre fare un lavoro sul campo, vivendo e osservando, senza interferire nelle storie della gente”, perché lo scopo è che le persone capiscano che le proprie storie hanno un valore e che per questo esse saranno in seguito condivise nello spazio del museo.
La museografia di questi spazi è rappresentata, quindi, dalle interviste, dei racconti dei più anziani, dalle testimonianze scritte e dalla donazione di oggetti che vengono classificati in base alle storie dei donatori. Ciascuno è portatore di elementi identitari che sono discussi nel momento in cui si decidono le basi del progetto di allestimento del museo. In un determinato spazio del museo, per esempio, i mestieri possono essere rappresentati come una importante caratteristica identitaria della comunità, come è il caso degli scalpellini che arrivarono dall'Italia a Sierra Chica per estrarre le pietre che furono poi utilizzate nelle strade di tutta Buenos Aires. In questo caso il racconto si è sviluppato attraverso la rivalutazione del lavoro artigianale che facevano questi uomini ed intorno alle abitudini acquisite dalla città in relazione a questo mestiere.
In un altro caso, quello del Museo-Hogar de Villa Fortabat, le storie che vi sono raccontate ruotano intorno alla fabbrica di cemento di Loma Negra (che era quella che dava sostentamento agli immigrati di oltre 20 nazionalità che hanno attraversato l’oceano per trovare lavoro all’inizio del ‘900) e intorno alle case e alle strutture che sono state costruite nei pressi del cementificio.
Questa nuova visione di “museo vivo” ha ricevuto, nel 2011, una menzione nella prima edizione del Premio Iberoamericano de Educación y Museos.

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Perché è importante? Perché questo progetto riflette un fenomeno educativo e partecipativo che sta portando trasformazioni fondamentali a livello mondiale; perché nasce da una ricerca sull'identità e si sviluppa grazie ad un processo partecipativo; perché è una riformulazione dello spazio del museo, inteso non più come un luogo statico, chiuso, ma dove si dà vita a processi sociali di riflessione e soprattutto di comunione, condivisione e inclusione.
La Red de Museos Municipales de los pueblos funziona attivamente tutto l'anno in tutte le sue sedi ed effettua anche eventi itineranti, utilizzando i propri spazi per attività inclusive rivolte a tutte le fasce di età e ai vari gruppi sociali che vivono in questi luoghi. Uno degli eventi annuali più attesi da tutti i musei della rete è quello dei “Cincuenta que Cuentan”. Nel corso di tre giorni, narratori provenienti da tutto il Paese si riuniscono, insieme ad ospiti internazionali, e si recano nelle città vicine a Olavarría raccontando storie non solo nei vari musei, ma anche per le strade e nei locali pubblici.
In questi musei le persone hanno a propria disposizione degli spazi per incontrarsi, per organizzare seminari e vari tipi di attività e, soprattutto, per far conoscere tradizioni che sono state perse e che hanno bisogno di essere rivalorizzate. Per questo motivo il museo esce anche dalle sue mura per raggiungere le persone nelle strade, nei negozi, nei luoghi in cui si trova la gente. E’ questa l'idea di Maribel: avvicinarsi a ciò che è realmente importante nella costruzione della identità del popolo: “I nostri musei sono comunitari perché gli oggetti appartengono alla gente”. I progetti museali, inoltre, si basano molto sulla collaborazione reciproca: nel caso di Loma Negra, per esempio, è stato dato uno spazio ai giovani skaters in cambio della loro cooperazione al ripristino dell’edificio. La cultura, quindi, è intesa come medium e messaggio, come un trasmettitore di valori, come spazio di costante riflessione e di pensiero critico in cui l'esperienza del visitatore crea un dialogo non solo dal punto di vista intellettuale, ma anche affettivo.
 “Si tratta di guardare indietro al nostro passato per capire ciò che siamo stati e ciò che ora siamo. E’ lo stesso procedimento mentale e affettivo che si attivava quando gli anziani, al termine della giornata, si riunivano intorno al fuoco e si raccontavano storie e ricordi” – afferma la direttrice - “Tuttavia non siamo musei che pensano solo al passato. Siamo un presente che mentre ricorda il passato pensa anche al futuro”.
Nei Museos de los pueblos– afferma la García – ciascuno racconta la propria "storia." Ciò riafferma il concetto di "umanizzazione della Storia affinché questa non sia solo una successione di date in cui le persone sono assenti, bensì un ridare alla gente il proprio posto per dimostrare che le nostre personali esperienze sono la cosa più importante".

https://www.facebook.com/RedDeMuseosMunicipalesDeLosPueblos?fref=photo
In Italia non si è ancora affermato niente di simile, ovvero non si è sviluppato un movimento di “riappropriazione di spazi museali” da parte della cittadinanza. I singoli musei possono proporre programmi culturali che prevedono una partecipazione più o meno attiva della cittadinanza, ma si tratta di iniziative sporadiche che non nascono da un apparato teorico ben definito e che, quindi, non sono collegate da un pensiero comune in grado di produrre un cambiamento a più ampio spettro. Anche la filosofia degli ecomusei, sebbene sia quella che più si avvicina alla museologia sociale, affermatasi soprattutto in America Latina a partire dagli anni ’60, pur teorizzando il modello di “museo di comunità” attraverso il trinomio territorio-patrimonio-cittadini che si contrappone al trinomio tradizionale edificio-collezione-pubblico[1], non ha poi sempre trovato riscontri veramente efficaci in una partecipazione diretta della comunità alla creazione del museo oppure sono stati prodotti risultati parziali. In alcuni casi, per esempio, le attività sono risultate più pertinenti a quelle delle Pro Loco, quindi di semplice promozione e animazione locale, mentre sono venuti a mancare i momenti di approfondimento, di confronto e di ricerca che caratterizzano le attività museali anche quando sono gestite da non specialisti. Altre volte non si è riusciti a superare la “logica verticale” dei musei classici, continuando a mettere in atto gestioni di tipo tradizionale.  
I musei che appartengono alla Red de Museos Municipales de los pueblos prima di iniziare questo progetto di “democratizzazione” erano stati organizzati secondo il modello classico di museo, incentrando le attività intorno alle proprie esposizioni permanenti; il problema era che la gente del luogo, dopo averle viste una volta, non sentivano più il bisogno di ritornare. L’unico modo per avvicinare la gente al museo, quindi, era creare innanzitutto un senso di appartenenza e poi una ragione valida per dedicare ad esso il proprio tempo.
Tornando al confronto con l’Italia, la difficoltà di attuare questo modello, nasce da alcuni errori di fondo. Chi gestisce un museo ha bisogno di chiedersi, innanzitutto, a chi vuole rivolgersi. Ai turisti? Agli esperti di una specifica materia? Alla cittadinanza? E’ curioso immaginare che un museo possa volersi rivolgere ad una sola di questa categorie, eppure in molti casi è proprio questo che avviene. Prendiamo ad esempio un piccolo museo di un borgo con un buon afflusso di turisti nel periodo estivo. Il museo funzionerà discretamente nel periodo tra maggio e ottobre, soprattutto se si trova in una località vocata alle vacanze balneari, marine o lacustri. In altri casi, potrà essere attivo, invece, in altri periodi dell’anno, a seconda delle caratteristiche del luogo o degli eventi importanti che vi si svolgono. Ma che cosa succederà negli altri mesi dell’anno? Nella maggior parte dei casi questo genere di musei si ferma, rimane inattivo in attesa di un nuovo periodo di maggiore frequentazione.


Il secondo esempio è quello dei musei che si rivolgono principalmente agli specialisti o alle persone con una cultura medio-alta. Sono facilmente riconoscibili perché generalmente le principali iniziative da questi promosse consistono in conferenze e seminari che hanno come risultato certo quello di tenere fuori dal museo una buona parte di potenziale pubblico.


Queste considerazioni riguardano, in generale, tutti i musei piccoli o periferici. Nel caso, poi, dei piccoli centri che possiedono un solo museo, si può aggiungere una ulteriore riflessione: generalmente si tratta di musei civici, i quali, in base ai contenuti, sono definiti “storici”, “archeologici”, “antropologici” o altro. 


Il problema non è solo nella denominazione ma nel tipo di gestione. Infatti, se è del tutto logico e normale che una grande città, fra i vari musei, abbia necessariamente tali musei specialistici, è incomprensibile come l’unico museo di un piccolo borgo possa essere un museo specialistico con poco o nessun interesse per la vita della propria comunità, totalmente avulso dal luogo in cui risiede. 
E’ necessario, invece, focalizzare l’attenzione su quali possono essere le condizioni migliori da attuare per rendere un museo un luogo “vivo”, usando l’espressione di Maribel García, e questo non è pensabile senza un coinvolgimento della comunità. Non è importante che tipo di collezione permanente contenga il museo, ciò che conta è che esso sia capace di ampliare i propri orizzonti, recependo nuovi stimoli dalla partecipazione collettiva.  




[1] Giovanni Pratesi, Francesca Vannozzi (a cura di), I valori del museo. Politiche di indirizzo e strategie di gestione, Milano 2014, p. 152

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