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Musei senza identità

Riporto qui l’intervista a Jean Clair: "I manager sono la rovina dei musei", pubblicata su Repubblica lo scorso 21 agosto, il quale si esprime a proposito della Riforma Franceschini e della cultura del marketing che si sta affermando sempre di più nel settore dei musei.  “Ho paura che la riforma” – afferma lo storico e critico d’arte francese – “non rispetti l'identità di un museo, la specificità della cultura locale che vi è custodita e che va tutelata. (…) Un direttore di un museo non deve fare grandi mostre, ma far conoscere il patrimonio spirituale di una nazione”.


Jean Clair è lo pseudonimo dello storico e critico d'arte francese Gérard Régnier (n. Parigi 1940). Laureatosi alla Sorbona di Parigi, ha studiato alla Harvard University e presso la National Gallery di Ottawa. A Parigi è stato conservatore al Musée national d'art moderne (dal 1982) e redattore capo dei Cahiers del museo, da lui fondati nel 1978; dal 1989 direttore del Musée Picasso. Direttore del settore arti visive della Biennale di Venezia dal 1994, ne ha diretto la 46ª edizione (1995); dal 2008 è membro dell'Académie française. Ha redatto monografie di artisti contemporanei (Bonnard, 1975; Marcel Duchamp ou le grand fictif, 1975, trad. it. 1979; Delvaux, 1975) e ha curato numerose mostre, tra le quali Last paradise: symbolist Europe (1995) e Cosmos (1999-2000). Ha pubblicato vivaci scritti polemici e critici sull'arte contemporanea, sulla teoria dell'arte e sul ruolo delle istituzioni: Considérations sur l'état des beaux-arts (1983; trad. it. Critica della modernità, 1984); Le nu et la norme: Klimt et Picasso en 1907 (1988); Méduse: contribution à une anthropologie des arts du visuel (1989; trad. it. 1992); La responsabilité de l'artiste: les avant-gardes entre Terreur et Raison (1997; trad. it. 1998); La barbarie ordinaire (2001); si segnalano, inoltre, le raccolte di saggi Éloge du visible: fondements imaginaires de la science/">science (1996); Malinconia. Motifs saturniens dans l'art de l'entre-deux guerres (1996); Le voyageur égoïste (1999); De immundo (2004); Lait noir de l'aube (2007); Malaise dans les musée (2007); Journal atrabilaire (2008); Zoran Music: apprendre à regarder la mort comme un soleil (con C. Juliet e I. Barbarigo, 2009); L'hiver de la culture (2011); Dialogue avec les morts (2011).

(Biografia tratta da Enciclopedia Treccani)

Immagine tratta da http://www.lefigaro.fr/


Di seguito, l'intervista realizzata da Raffaella De Santis: 

In questi giorni Jean Clair è a Venezia, in giro con la moglie per calli e mostre. Vent'anni fa curò una Biennale dedicata al volto e al corpo umano, ma oggi è deluso. Non gli piacciono le esposizioni affollate di turisti e quando gli si chiede di commentare la nuova riforma dei musei, all'inizio sembra possibilista, ma poi di fronte all'idea di una nuova figura di direttore-manager si accalora:

"Un direttore di un museo non deve fare grandi mostre, ma far conoscere il patrimonio spirituale di una nazione. È la fine. L'arte ha perso ogni significato".

L'argomento lo appassiona. Risale ormai a qualche anno fa un suo saggio intitolato "La crisi dei musei", mentre nel più recente "L'inverno della cultura" ha disseminato pagine durissime contro i musei-luna park ridotti a magazzini di opere preziose. Per il grande critico e storico dell'arte, il sistema museale è ormai asservito alla logica mercantile, come qualsiasi altro prodotto. Nel suo ultimo libro, intitolato Hybris. La fabbrica del mostro nell'arte moderna (Johan & Levy), studia la morfologia dell'arte moderna, le sue deformazioni morbose, il suo progressivo allontanamento dalla bellezza. Il fatto che Jean Clair sia stato anche direttore del Centre Pompidou e del museo Picasso, lo spinge a guardare con curiosità a quanto sta accadendo nel nostro paese.

Che cosa non la convince nella riforma italiana dei musei?
"Prima di tutto ho paura che non si rispetti l'identità di un museo, la specificità della cultura locale che vi è custodita e che va tutelata".

Un direttore straniero potrebbe essere inadatto a questo compito?
"Un direttore di un museo deve per prima cosa essere un critico e uno storico dell'arte. Da questo punto di vista, scorrendo la lista dei nomi selezionati, mi pare che ci siano professionalità di rilievo. Conosco Sylvain Bellenger, che a Capodimonte farà un ottimo lavoro. Ma il problema è un altro. È un problema spirituale e culturale più ampio. Si stanno trasformando i musei in fondi bancari, in macchine finanziarie, hedge fund specializzati in speculazioni. Non abbiamo più idea di che cosa sia l'arte, di quale sia il suo compito".

Non pensa sia anacronistico tentare di arginare l'internazionalizzazione della cultura?
"Sono curioso di vedere cosa accadrà in Italia. Il fatto che molti dei prescelti siano stranieri è in sé un fatto positivo, se non fosse che dovranno operare dentro musei ridotti a macchine per incassare soldi. Io stesso prima di essere nominato al Beaubourg e al museo Picasso ho studiato in America. Ricordo il sorriso del direttore del Louvre quando decisi di partire. Mi disse: "Che vai a fare in America?" Non lo ascoltai. Sono rimasto ad Harvard tre anni. Era il 1966. Da lì sono poi andato in Canada, al museo nazionale".

Nei suoi scritti ha però attaccato più volte il sistema museale contemporaneo. Mercato e cultura sono forze antagoniste?
"Molti musei sono in mano a mercanti senza cultura. Il compito di un museo dovrebbe invece essere educare e dilettare. Il direttore dovrebbe preoccuparsi di tutelare il patrimonio d'arte che gli è affidato senza venderlo. Prenda l'idea di portare il Louvre ad Abu Dhabi. Una follia".

Crede si arriverà a questo anche in Italia?
"Ho l'impressione che tra un po' di tempo ci sarà l'esigenza di mettere sul mercato qualche opera per rimpinguare le casse della macchina-museo. Nel 2006, Françoise Cachin, che è stata la prima donna a essere eletta direttrice dei musei di Francia, scrisse un articolo contro l'idea di vendere i musei e venne allontanata dal suo incarico. Invece aveva ragione. Le opere d'arte sono ormai ridotte a merce senza qualità, senza identità".

Immagino che l'idea di affittare un museo per eventi privati non le piaccia affatto...
"L'idea del neo direttore tedesco degli Uffizi, Eike Schmidt, di dare in affitto delle stanze della galleria segna l'inizio della fine. O piuttosto la continuazione di una decadenza della quale lui stesso sarà il responsabile finale".

Lei ha guidato grandi musei. Ora ai direttori si richiede di essere anche dei manager. Quali possono essere dal suo punto di vista le conseguenze di un tale cambiamento?
"Guardi cosa succede al Centre Pompidou, dove si è chiusa da poco una retrospettiva dedicata a Jeff Koons. La mostra è stata appaltata a privati. Duemila metri quadrati di esposizione per mettere in scena una buffoneria. Una buffoneria che prende però autorevolezza dalle collezioni del Beaubourg, che sono il vero patrimonio del museo, come l'oro conservato nei caveau delle banche. Sono Cézanne e Picasso a dare valore a Koons. I musei sono utilizzati come riserve auree per dar credito a operazioni di manipolazione finanziaria, forniscono quel deposito che dà pregio alle proposte del mercato privato. Quella di Koons è chiaramente un'operazione fraudolenta, un falso, una bolla speculativa. È quanto accade quando si preferiscono direttori manager. Come nel caso di Alain Seban, alla guida del Pompidou".

Ma per far funzionare il sistema museale servono soldi, dove trovarli?
"Il costo per mantenere un museo è ridicolo rispetto a quello della sanità o dei trasporti".

Al centro della riforma c'è l'idea di "valorizzazione"? Le piace?
"È un termine delle banche. Si valorizzano i soldi non le opere d'arte. Leggo che nei musei si apriranno ristoranti e bookshop. C'è bisogno di un manager per aprire un ristorante?"

Ha visitato la Biennale Arte?
"Tantissimi padiglioni da tutto il mondo, tutti uguali. Sono a Venezia da qualche settimana e quello che vedo mi spaventa. I musei sono molto frequentati, come le spiagge, ma non sono più frequentabili".

Come ridare significato all'arte?
"L'opera d'arte non significa più nulla, è autoreferenziale, un selfie perpetuo. I jihadisti dell'Is hanno decapitato l'archeologo Khaled Asaad. Da una parte abbiamo paesi che credono nell'arte al punto da uccidere e dall'altra pure operazioni di mercato".

Meglio tornare al passato?

"Non è possibile. Viviamo nel tempo dell'arte cloaca. Il museo è il punto finale di un'evoluzione sociale e culturale. È una catastrofe senza precedenti. Il crollo della nostra civiltà".

Museo Nacional del Prado - Vídeo institucional


Il Museo del Prado è uno dei musei più importanti del mondo. Vi sono esposte opere dei maggiori artisti, fra cui Goya, El Greco, Diego Velàsquez, Ribera, Murillo, Rembrandt, Rubens, Botticelli, Caravaggio e molti altri.
Il Museo fu fatto costruire da Carlo III ed è opera dell'architetto Juan de Villanueva. Divenne sede di collezioni d'arte a partire dal 1816, prendendo a modello il Louvre. 

Il riciclo che ispira l'arte

La mostra di David Booker, "Il gusto del recupero", presso il Museo Virgiliano, nel mantovano, dal 3 al 27 settembre



Il Museo Virgiliano è un piccolo museo inaugurato nel 1981, in occasione del bimillenario della morte del Poeta dell'Eneide, a Borgo Virgilio, provincia di Mantova, nella frazione di Pietole. Qui, dal 3 al 27 settembre, sarà possibile visitare la mostra "Il gusto del recupero", una selezione di opere su carta disegnate a matita da David Booker, artista australiano noto soprattutto per le sue opere monumentali in marmo.
La mostra avrà come protagonisti alcuni soggetti molto particolari: scatole vuote, imballaggi usati, pezzi di motore...ogni genere di rifiuti trasformati in opere d'arte.

La mostra è promossa dall'Assessorato alla cultura del Comune di Borgo Virgilio e sarà aperta grazie ai volontari della Pro Loco tutti i fine settimana, dal 3 al 27 di settembre, con orario dalle 16 alle 19. In particolare, il 3-4 e il 9-13 settembre sarà visitabile in concomitanza con il Festival Internazionale della Letteratura di Mantova. L'organizzazione è curata da Valeria Giovagnoli.

Un esempio interessante di come anche i piccoli musei possano produrre eventi di alto livello culturale in grado di coinvolgere intensamente la comunità. Lo sforzo compiuto dal Comune di Borgo Virgilio dimostra anche quanto sia importante che le Istituzioni locali abbiano la consapevolezza delle potenzialità offerte dai musei quali spazi culturali vivi e vivificanti delle nostre città.

L'inaugurazione della mostra avrà luogo giovedì 3 settembre alle 17.30 con ingresso gratuito. Sarà offerto un aperitivo dalle Cantine Giubertoni di San Biagio, un bel gesto di collaborazione alle iniziative culturali locali da parte di un'azienda del territorio. All'inaugurazione sarà presente David Booker che illustrerà personalmente il significato dell'esposizione.


Il pomeriggio del 6 settembre, inoltre, sarà in programma un laboratorio sensoriale didattico dedicato ai bambini, incentrato sulle eccellenze alimentari di questa zona del mantovano, collegando così l'evento alle iniziative di Expo Milano 2015. La partecipazione è libera.

Silvana Sperati illustra il metodo Bruno Munari

Riporto qui un’intervista a Silvana Sperati, presidente dell’Associazione Bruno Munari, pubblicata sulla rivista online La vita scolastica.Bruno Munari fu artista, designer e scrittore tra i maggiori del secolo scorso. Dedicò un interesse particolare al mondo dell’infanzia e dell’educazione. Alla scuola di oggi consegna una proposta assai attuale: il laboratorio come luogo della migliore educazione, la creatività come “ricerca sincera di varianti”, un metodo che risiede nel “creare relazioni tra gli elementi conosciuti”. L’Associazione Bruno Munari ne prosegue ufficialmente il metodo e la ricerca che indicò l’artista. Promuove seminari, laboratori, eventi, mostre in Italia e nel mondo ed è l'unica deputata alla formazione sul Metodo Munari. Per maggiori informazioni è possibile consultare il sito www.brunomunari.it.
Foto tratta da:
http://www.artribune.com/2014/03/munari-artista-politecnico-in-attesa-della-grande-mostra-a-milano/3-614/
  
Una sua intervista a Bruno Munari del 1997 si chiude con questa domanda: “Munari è per tutti o per pochi?”. E Munari risponde: “Mah, io direi per tutti”. Che cos’è oggi Munari per la scuola?

Intanto vorrei dire che, secondo me, questa risposta che diede Munari: “Mah, io direi per tutti” descrive in modo assolutamente chiaro il pensiero dell’artista. Ho motivo di credere che negli ultimi anni della sua vita Bruno Munari abbia riservato un’attenzione particolare al mondo dell’infanzia e all’educazione. Diceva lui stesso che quello che voleva restasse era il laboratorio. In questa sua affermazione, io riconoscevo l’accezione vera del laboratorio, come luogo, spazio, tempo, occasione per la costruzione della conoscenza a partire dalla sperimentazione. Lì, nel laboratorio, c’è Munari. E nel laboratorio c’è gran parte del futuro di tutti noi che si costruisce qui e ora attraverso la migliore educazione, proprio quella che ci venne insegnata da questo grande artista.
Pablo Picasso lo paragonò al genio di Leonardo da Vinci, perché si esprimeva con agilità in tanti settori (l’arte, la grafca, la scultura, la scrittura, la progettazione...) e per la tipologia di pensiero, così attenta alla conoscenza, che sempre espresse in tutti i campi. Nonostante questa poliedricità e intensità, Munari sente sempre, e lo ribadisce nell’intervista, di voler essere “per tutti”. Questo vuol dire che dalla lezione di Bruno Munari possiamo trarre anche delle indicazioni necessarie al mondo della scuola. Perché la scuola cos’è, se non il luogo deputato alla costruzione del sapere? Certo si va a scuola per imparare, ma soprattutto per scoprire, per aguzzare la curiosità, per conoscere. Ecco io credo che nell’approccio che Bruno Munari mostrò nei laboratori possiamo trovare indicazioni per portare in aula l’apprendimento, in senso pieno. E questo atteggiamento è quello richiesto proprio oggi dalla scuola, non solo italiana, ma anche europea, quando insiste su quello che viene defnito “imparare a imparare”: quindi fare in modo che l'individuo apprenda, fin da piccolo, a diventare fautore del proprio apprendimento.

Foto tratta dal sito http://www.labogattomeo.it/?page_id=279

L’Associazione di cui è presidente lavora per la comprensione e la diffusione del “metodo Munari”. Vuole illustrarlo ai nostri lettori?

Proverò, attingendo ai testi di Munari e in particolare al suo libro Fantasia (Universale Laterza, Bari, 1977). Qui Munari prova a defnire alcune parole molto spesso confuse tra di loro: fantasia, immaginazione, creatività, invenzione. Quando parla della fantasia, Munari dice che è la facoltà più importante di tutte, perché ci permette di fantasticare di cose e di oggetti che possono anche essere assolutamente irrealizzabili. Si parla di una fantasia che va a briglie sciolte, dunque, di una possibilità del pensiero in cui tutto può essere immaginato. Però, quando parla di fantasia, Munari dice anche che la fantasia usa lo stesso metodo, e sottolinea proprio la parola metodo, di altre facoltà: per esempio dell’invenzione, o della creatività. E dunque: che cos’è questo metodo? Questo metodo, dice Munari, risiede nel “creare relazioni tra gli elementi conosciuti”.
Dunque la persona, prima di tutto, è invitata a “costruirsi” delle informazioni attraverso la sperimentazione che avviene nel laboratorio e nel vissuto quotidiano. Nel laboratorio di Munari posso esplorare un materiale, una tecnica, per scoprire tutto quello che si può fare. Questo mi dà la possibilità di “costruirmi” delle informazioni. Ma se queste informazioni rimanessero ferme, non utilizzate in nessun progetto – Munari dice “come un magazzino di dati inerti” – non servirebbero a nulla. Dunque l’importante è creare una situazione, un'attività che inviti ciascuno a creare relazioni tra queste informazioni, relazioni che poi portano a progettare, costruire, immaginare un qualcosa di nuovo.
Questo “qualcosa di nuovo” non deve essere necessariamente finalizzato, perché può essere anche qualcosa di cui ancora non immaginiamo un uso possibile. Munari dice: quando un oggetto è così preciso, descritto, come un trompe-l’oeil, non stimola il soggetto come un’immagine che invece può essere tante cose, per esempio un ippopotamo o una cavalletta. Massima apertura, dunque, verso materiali “imperfetti”, semplici e più vari possibile, in modo che il bambino possa realizzare sperimentazioni diverse. A livello educativo, inoltre, occorre tempestività: se un bambino riceve un’educazione che lo invita a vedere quello che si può fare con le cose fin da piccolo, è verosimile che manterrà questa attitudine per sempre. Se, invece, già nei primi anni a un bambino si dice: “Stai attento, No!... Si deve fare così, si deve fare cosà!... Il cielo è sempre azzurro... Il pulcino è sempre giallo... La mela è sempre rossa...”, quel bambino avrà poche possibilità di emancipare i propri pensieri, di contemplare le infinite variabili, di costruire i propri apprendimenti...

Tornando all’intervista del 1997, Munari dice che la creatività è “ricerca sincera di varianti”. Come possiamo tradurre, anche per il mondo della scuola, questa definizione?

Questa frase sulla creatività è molto bella e mi permette di precisare la risposta sul metodo che ho dato prima, perché ogni parola della frase è un elemento di metodo. La parola “ricerca” ci porta all'approccio scientifco, così vicino all’attenzione di Munari, che ha sempre cercato di analizzare ogni aspetto, di non dare nulla per scontato. L’atteggiamento del ricercatore è l’atteggiamento di colui che con curiosità guarda a tutte le espressioni che il mondo gli presenta. E Bruno Munari aveva fatto suo questo atteggiamento, manifestato anche con la grande attenzione che ha sempre riservato al mondo della natura. Per tutta la vita Munari osservò la natura, i suoi processi, i suoi cambiamenti, le sue variabili e io credo che dalla lezione di Munari ci venga anche lo stimolo di tornare alla natura con uno sguardo di stupore per tutto quello che ci può insegnare.

Questa ricerca, dice Munari, deve essere “sincera”. Una ricerca sincera è una ricerca “vera”. Dal nido all’università proponiamo ricerche viziate, non vere ogni volta che si dà il risultato per scontato. Per esempio: se provo a fare un’esperienza di mescolamento dei colori, come il blu e il giallo, so bene che il risultato sarà il verde, ma non posso fermarmi lì. Infatti quante variabili ci possono essere in quell’esperienza, a partire dall’intensità e tipologia dei pigmenti, da quanto blu e quanto giallo metto, dal materiale su cui spalmo, spremo o stendo il colore? In questo senso la dimensione della ricerca deve essere “sincera”. Perché la dimensione della ricerca “sincera” coinvolge, appaga l’individuo e, soprattutto, diventa realmente generativa di nuovi saperi. La ricerca non deve essere millantata, su questo dobbiamo essere molto attenti. Come il laboratorio: deve essere il luogo della ricerca, non può essere il luogo del “facciamo finta che facciamo la ricerca”. Ormai anche intorno alla parola “laboratorio” è andato un po’ a perdersi questo elemento costitutivo della ricerca: dobbiamo rileggere il senso delle parole, ritornare al loro significato come definizione di azioni realmente congruenti. “Ricerca sincera di varianti”, dice Munari. Ecco, qui entriamo nell’orizzonte molto creativo del “quanti ce ne sono” e del “come sono”. Proviamo a immaginare delle domande: un sasso: quanti ce ne sono di sassi?; è rosso: quanti ce ne sono di rossi?; fino a quando questo materiale che è rosso è rosso, e quando invece da rosso diventa scuro scuro, e forse stiamo passando nel marrone? La ricerca delle varianti mi “apparecchia davanti” le possibilità del mondo, ma insieme mi descrive anche i suoi confini, portandomi in quel territorio dello “sfumato” dove posso descrivere un fenomeno con un’esattezza che non è solo mero dato, numero, definizione ma consapevolezza del mondo. Entrare in questo tipo di processo significa prendersi in mano il gusto, la gioia dell’apprendere. E sarà proprio ritornando a questa gioia che potremmo dare ai nostri studenti una grande chance. Si tratta di un movimento da compiere all’insegna del festina lente, dove l’investimento nell’educazione, oggi, è l’azione più importante che possiamo fare.

Santi ed eroi. Pittura sacra e profana a Civitanova

24 luglio 2015, ore 19.00-Civitanova Marche Alta



"Santi ed eroi. Pittura sacra e profana a Civitanova" non è una delle tante rassegne d'arte, ma una esposizione di significativa importanza, sia per lo studio e la conoscenza degli artisti trattati e dei temi figurati nei dipinti, sia quale modello per altre rassegne del genere che si dovrebbero promuovere in molte città della nostra regione detentrici di un patrimonio di grande qualità, il più delle volte poco conosciuto e poco valorizzato.
La mostra  nasce da un'attenta indagine dell'ingente patrimonio pittorico disseminato nei palazzi pubblici, nelle ex chiese ed ex nei conventi di Civitanova Marche.
Tele di  soggetto sacro e profano, databili fra il XV secolo e i primi anni  dell'Ottocento, per la prima volta vengono offerte al pubblico godimento e studiate da un affermato gruppo di storici dell'arte come: Stefano Papetti, Università di Camerino; Silvia Blasio, Università di Perugia; Mario Alberto Pavone, Università di Salerno; Enrica Bruni, Direttore Pinacoteca civica Marco Moretti; Giuseppe Capriotti, Università di Macerata; Gabriele Barucca, Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio delle Marche.

Inaugurazione venerdì 24 luglio 2015, ore 19:00
Auditorium di Sant'Agostino
Civitanova Marche Alta (MC)

Ulteriori informazioni sul sito: http://www.pinacotecamoretti.it/santieroi.asp

Scanner al grafene per il restauro delle opere d'arte

Articolo tratto da Euronews

Julián López Gómez, euronews: “Come vedere ciò che è invisibile in un oggetto d’arte, in modo preciso e non invasivo?”.
I ricercatori dell’Università di Oviedo, nel nord della Spagna, sono convinti di avere trovato la risposta grazie al grafene: “Il grafene agisce come un moltiplicatore di frequenza – spiega Samuel Ver Hoeye, esperto di telecomunicazioni – Partendo da frequenze basse, genera segnali ad alta frequenza in modo relativamente facile. Con il grafene, possiamo effettuare un’analisi approfondita dell’opera, identificando la composizione chimica dei materiali”.
Le immagini ottenute con gli scanner al grafene vengono poi elaborate e immesse in uno scanner 3D ad alta risoluzione per generare modelli grafici tridimensionali che rivelano i segreti contenuti nell’opera originale.
“Ciò che vediamo è il colore reale dell’opera, che viene virtualmente illuminato e registrato – sostiene Yannick Francken, informatico presso 4DDynamics – Tecnicamente, l’aspetto più difficile è combinare le diverse scansioni: queste devono essere allineate automaticamente. Se il risultato non è perfetto, con un margine di accuratezza di 0,2 millimetri, ne va della possibilità di ricostruire i colori”.
Lo scanner nasce dal progetto di ricerca europeo Insidde ed è stato ideato per studiare sia gli oggetti tridimensionali che le opere pittoriche con superfice piatta.
Una versatilità che potrebbe essere molto apprezzata da conservatori e restauratori d’arte, sostiene Javier Gutiérrez Meana, esperto di telecomunicazioni e coordinatore del progetto: “Gli scanner con cui vengono abitualmente studiate le opere d’arte sono molto costosi. La nostra tecnologia è molto più economica: si tratta di uno scanner leggero e compatto, che si può trasportare facilmente in musei e laboratori”.
Il Museo di Belle Arti delle Asturie ha messo a disposizione dei ricercatori diverse opere sulle quali testare lo scanner.
Le prove effettuate su alcuni dei pezzi più importanti delle collezione museale ha dato risultati che i ricercatori ritengono incoraggianti.
Marta Flórez Igual, conservatrice museale: “Possiamo scoprire quanto è spesso lo smalto o quanti sono gli strati di colore. Possiamo identificare eventuali disegni preparatori sotto il dipinto e capire come sono stati realizzati. Stiamo anche cercando di capire se lo scanner può identificare i diversi materiali nel dipinto, come smalti, fissativi e pigmenti”.

Ringrazio Konstantin Vekua che mi ha segnalato la notizia

OLTRE LE MURA

di Caterina Pisu





Nessun museo può limitare i confini della missione di cui è depositario al perimetro delle mura del proprio edificio. Oltre alla conservazione delle collezioni è di vitale importanza conoscere bene il proprio territorio, capire quali realtà convivono con la propria e cercare di interagire con esse. E se un territorio, che si tratti di quello di una grande città o di un piccolo centro, ospita un carcere, chi è responsabile di un museo non può ignorare questa presenza, al cui interno vive una comunità che non deve essere trascurata.
Il Louvre è stato il primo museo al mondo ad aver stipulato, nel 2011, una convenzione con un carcere, nello specifico con l'amministrazione penitenziaria del Carcere di Poissy, a Parigi, che ospita 230 detenuti, di cui l’80% condannato a più di 20 anni di reclusione. 
Il progetto, denominato "Au-delà des murs", aveva permesso a 10 detenuti di partecipare alla creazione di una mostra di 10 riproduzioni di opere esposte nel Museo del Louvre, con l'obiettivo di portare l'arte all'interno del carcere, solitamente escluso dalle manifestazioni culturali pubbliche.  
Il rapporto del Louvre con le carceri risale già al 2007: fino ad oggi sono state organizzate più di 120 attività cui hanno preso parte professionisti del settore culturale. Nel caso del progetto "Au-delà des murs", che ha rafforzato l'impegno del Louvre per le attività sociali e culturali nelle carceri, ogni detenuto che ha preso parte al progetto ha scelto autonomamente il proprio modo di contribuire alla realizzazione della mostra, dedicandosi alla pittura, alla progettazione grafica o ai testi, ma lavorando sempre avendo come punto di partenza le opere visionabili nel catalogo del Museo, tra le quali i curatori del Louvre hanno preventivamente scelto 26 opere. 
I volontari sono stati scelti non per le loro capacità artistiche ma per la forte motivazione interiore che hanno dimostrato.
La mostra ha avuto la supervisione dello scrittore Luc Lang, membro della Maison des écrivains et de la littérature, e dell'architetto-scenografo Philippe Maffre (che ha già collaborato con il Louvre e che ha realizzato lo storyboard della mostra) i quali hanno lavorato al progetto con il gruppo di detenuti, con il personale del carcere e con quello del Louvre. 

Per circa sei mesi il cortile dell'istituto penitenziario ha ospitato l'esposizione delle riproduzioni realizzate dai detenuti mentre il Louvre esponeva, nello stesso tempo, una "mostra-specchio" con le copie delle stesse opere. Il cortile è stato scelto come spazio espositivo non perché non si disponesse di altre soluzioni, ma perché, in questo modo, tutti i detenuti, ogni giorno, avrebbero potuto osservare quelle opere e trarne un beneficio.
L'iniziativa ha suscitato grande emozione non solo nell'ambito della comunità carceraria e dello staff di curatori e collaboratori del Louvre, ma anche dell'intera cittadinanza parigina. 
Iniziative analoghe sono state proposte, successivamente, anche dalla National Gallery di Londra, ma per ora il Louvre resta l'unico museo ad aver trasformato i detenuti non solo in artisti ma anche in curatori.

Il caso dell’Art Institute of Chicago: fuori tutti i volontari bianchi dal museo

Fonte dell'immagine: The Federalist Negli Stati Uniti, presso l’Art Institute of Chicago (AIC) si è aperto un caso che potrebbe essere d...