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Il grande saccheggio

Vent’anni di contrasto al traffico illecito di reperti archeologici e una straordinaria scoperta


Da sinistra: Maurizio Pellegrini, Fabio Isman e Alessandro Barelli
Venerdì 22 aprile, presso l’Auditorium della Fondazione Carivit di Viterbo, a Valle Faul, ho avuto il piacere di assistere alla conferenza dell’archeologo Maurizio Pellegrini, funzionario della Soprintendenza Archeologia Lazio ed Etruria Meridionale (già Soprintendenza per i Beni archeologici dell’Etruria Meridionale prima della Riforma Franceschini) e del giornalista e scrittore Fabio Isman (autore del libro “I predatori dell’arte perduta”). 
L’occasione, nell’ambito del ciclo di incontri “Etruscans – Gli Etruschi mai visti” (organizzato dall’Associazione Historia di Alessandro Barelli), ha permesso di ricordare vent’anni di attività di contrasto al traffico illecito di reperti archeologici che l’Ufficio Sequestri della Soprintendenza ha condotto con grande dedizione e con straordinaria efficacia, ma spesso rimanendo nell’ombra, come dimostra lo scarso riscontro avuto dal punto di vista mediatico, e, mi permetto di dire, anche il tiepido plauso che i protagonisti diretti di questa battaglia contro i trafficanti d’arte hanno ricevuto anche dalle Istituzioni (si può leggere in questo blog un’intervista a Daniela Rizzo e a Maurizio Pellegrini, condotta dalla sottoscritta, nel 2013, per il mensile Archeo News). Eppure i risultati sono stati, quelli sì, sotto i riflettori del mondo: è sufficiente ricordare la restituzione all’Italia del Cratere di Eufronio, scavato illecitamente, venduto ed esposto fin dal 1972 presso il Metropolitan Museum di New York; oppure l’Afrodite di Morgantina, restituita dal Paul Getty Museum di Malibu che l’aveva ottenuta nel 1986 da Robin Symes per la cifra di 18 milioni di dollari, solo per citare due dei casi più clamorosi.

Robin Symes, il più grande trafficante inglese


Proprio su Robin Symes si è focalizzato l’intervento di Fabio Isman, grande conoscitore delle vicende di traffico clandestino internazionale che negli ultimi cinquant’anni ha privato il nostro Paese di almeno un milione e mezzo di reperti, secondo la stima effettuata dall’Università di Princeton; “una vera e propria razzia” – ha sottolineato Fabio Isman. I pochi reperti restituiti hanno un valore superiore ai due miliardi di euro e questo dato rivela l’entità di un commercio dalle cifre stratosferiche e quindi, proprio per questo motivo, molto difficile da combattere completamente, tanto più che in questo traffico non si sono tirate indietro neppure le più famose case d’asta. Robin Symes, nativo del quartiere londinese di Chelsea, era un antiquario che è considerato uno dei più grandi trafficanti d’arte, soprattutto alla luce dei più recenti recuperi. La fine dei suoi affari è dovuta ad una circostanza avversa, legata alla morte accidentale del compagno Christo Michaelides, nel 1999. Quando la sua famiglia intraprese un’azione legale contro Symes, rivendicando l’eredità di Michaelides, l’antiquario mentì riguardo l’entità del patrimonio e dunque fu condannato a due anni di reclusione per l’impostura e per l’oltraggio alla corte (e quindi non per il reato di ricettazione e vendita di opere d’arte). Le vicende giudiziarie che hanno portato Symes al fallimento hanno anche rivelato l’enorme attività di ricettazione e di vendita dei reperti archeologici, trafugati per buona parte dall’Italia. Presso il suo magazzino di stoccaggio in Svizzera, lo scorso gennaio le autorità italiane hanno rinvenuto ben 45 casse colme di reperti dall’Etruria e dall’Italia meridionale, per un valore di circa 9 milioni di euro. Molti di questi oggetti - stiamo parlando di migliaia di reperti – provenivano da un edificio templare, localizzato probabilmente a Cerveteri; si tratta di numerosi frammenti di lastre architettoniche policrome o con rilievi, databili tra la metà e la fine del VI sec. a. C., la cui entità dimostra chiaramente che il santuario è stato totalmente razziato dai clandestini. E’ uno dei rinvenimenti archeologici più importanti degli ultimi decenni.
E’ stato anche dimostrato che Symes aveva sicuramente rapporti d’affari con l’italiano Giacomo Medici e con l’americano Robert E. Hecht, entrambi famigerati trafficanti d’arte che hanno rifornito numerosi musei in tutto il mondo e in particolare il Paul Getty Museum. La stessa ex curatrice del museo americano, a riprova degli stretti rapporti con i faccendieri internazionali, aveva acquistato una villa su un’isola greca proprio per mezzo di Symes.

Lo scoop. L’insperata ricostruzione di un contesto archeologico depredato: il corredo della tomba apula di Ascoli Satriano


Nel corso della conferenza, Maurizio Pellegrini ha reso nota una sua importantissima scoperta: la ricostruzione, dopo la vendita e il successivo recupero, di quello che si suppone possa essere l’intero corredo tombale di una tomba da Ascoli Satriano, scavata clandestinamente.
Uno dei danni maggiori prodotti dagli scavi clandestini è, ovviamente, la perdita della connessione tra l’oggetto riportato alla luce e il proprio contesto di provenienza. E’ praticamente impossibile, tranne nel caso in cui gli stessi tombaroli abbiano documentato il recupero e ne abbiano informato successivamente gli inquirenti, riuscire a ricostruire un corredo tombale per intero. Per questa ragione, la scoperta di Maurizio Pellegrini assume una rilevanza straordinaria.
Per ripercorrere le varie fasi dell’indagine è necessario risalire ai tempi del processo contro la curatrice del Getty, Marion True, e contro Robert Emanuel Hecht, aperto presso il Tribunale di Roma. In quella circostanza si acquisì una nota riservata scritta da Arthur Houghton - curatore del Getty prima della True - il quale, scrivendo alla direttrice associata del museo, Deborah Gribbon, faceva riferimento ad un articolo scientifico in cui venivano menzionate alcune opere marmoree – in particolare il trapezophoros, la lekanis - che erano state poco tempo prima acquisite dal museo americano e che il trafficante d’arte Giacomo Medici aveva dichiarato provenire da una stessa tomba “non lontano da Taranto”, un contesto che includeva anche “un discreto numero di vasi del Pittore di Dario”.
Recentemente queste opere - che nel 1985 erano state vendute al Getty, per la cifra di 500 mila dollari, dal collezionista di New York, Maurice Tempelsman[*] - sono rientrate in Italia.
Successivamente, nel corso delle loro investigazioni, Daniela Rizzo e Maurizio Pellegrini notarono un gruppo di 21 vasi apuli esposti nel Staatliche Museen di Berlino, tutti provenienti da una stessa tomba e, tra questi, due crateri apuli a figure rosse erano attribuibili al Pittore di Dario. Bisogna sottolineare che questi reperti furono acquistati tutti insieme dal museo tedesco, nel 1984, da una famiglia svizzera che ne era proprietaria all’incirca dal 1970, come attestato da due testimoni di cui una di loro, tale Fiorella Cottier Angeli, era una restauratrice, funzionaria delle dogane elvetiche del Porto Franco e collaboratrice del trafficante Giacomo Medici! L’altro testimone, invece, era Jacques Chamay, direttore del Museo di Ginevra più volte implicato in indagini della magistratura italiana, che giurò d’aver scoperto egli stesso i reperti in questione.

Le Polaroid con lo stesso numero di imballo dei vasi apuli e dei marmi di Ascoli Satriano

Le indagini della Rizzo e di Pellegrini stabilirono, invece, che 4 dei 21 vasi apuli erano rintracciabili nelle polaroid dell’archivio Medici; due vasi appaiono ancora in frammenti, prima del restauro, ma – particolare importante -  le polaroid in cui sono stati immortalati recano un identico numero di serie (00057703532) e facevano parte di una confezione di polaroid "300 Istant Film" da 20 scatti. Maurizio Pellegrini, quindi, ricordando il documento confidenziale del Getty dove il trafficante informava che il trapezophoros e la lekanis provenivano da una tomba "non lontano da Taranto, che includeva un certo numero di vasi del Pittore di Dario”,  scopre che altre sei polaroid con l’identico numero di serie, mostrano il trapezophoros in pezzi e la lekanis, ancora ricoperti di terra, fotografati nel bagagliaio di un auto, subito dopo lo scavo clandestino: ciò significa che i vasi apuli e i reperti marmorei provengono sicuramente dalla stessa importante tomba apula della seconda metà del IV sec. a. C. I primi sono attualmente ancora esposti nel Staatliche Museen di Berlino, mentre il trapezophoros, la lekanis, cui si aggiunge la statua di Apollo (proveniente sempre da Ascoli Satriano ma da un altro contesto) sono stati restituiti dal Getty Museum ed ora sono esposti ad Ascoli Satriano.

I marmi restituiti all'Italia dal P. Getty Museum, esposti ad Ascoli Satriano

A ciò si aggiunge un’altra ipotesi suggestiva, sebbene ancora da verificare. Al Pittore di Dario e allo stesso ambito culturale sono attribuiti anche un altro gruppo di vasi, tutti acquistati dai musei americani tra il 1984 e il 1991 e già restituiti allo Stato italiano: un’anfora a figure rosse decorata con la scena della morte di Atreo, venduta da Hecht al Museum of Fine Arts di Boston; la pelike apula a figure rosse decorata con il ritorno di Andromeda venduta al Getty Museum; la loutrophoros apula a figure rosse decorata con Niobe in lutto, venduta al Princeton University Museum of Art; un cratere a volute apulo a figure rosse venduto al Cleveland Museum of Art; un dinos apulo a figure rosse con Ercole e Busiride venduto al Metropolitan Museum of Art di New York. Potrebbero appartenere anch’essi alla stessa tomba di Ascoli Satriano cui provengono gli altri reperti? Questa seconda ipotesi, al momento, salvo altre scoperte o rivelazioni degli stessi trafficanti d’arte, potrà essere confermata solo da ulteriori analisi. Tuttavia è già un risultato clamoroso l’essere riusciti a ricostruire, forse interamente o forse solo parzialmente, il contesto dei vasi apuli e dei reperti marmorei da Ascoli Satriano, venduti separatamente in Germania e negli Stati Uniti, subito dopo lo scavo clandestino. Per una volta si è riusciti non solo a ottenere la restituzione di parte dei reperti, ma anche a recuperare dei dati preziosi ai fini della ricerca storica e archeologica.


Il video della conferenza è stato curato da Mauro Galeotti. 




[*] Maurice Tempelsman, affarista belga-americano e mercante di diamanti, è noto in Italia per essere stato a lungo il compagno di Jacqueline Kennedy Onassis, ex First Lady degli Stati Uniti.

Un vino "da museo"


Storia un vino, di archeologia sperimentale, di musei e di un legame indissolubile con una terra antica. Intervista a Francesco Mondini e a Maurizio Pellegrini

Synaulia e Il Centro del Suono hanno organizzato centinaia di banchetti in moltissimi musei ed aree archeologiche italiane ed europee (il Prahistorische Staatssamlung Museum di Monaco, l’ArchaologischerPark Regionalmuseum di Xanten, Germania, il Parco Archeologico di Baratti ePopulonia, il Museo Guarnacci di Volterra, solo per citarne alcuni), si sono occupati di rievocazioni di archeologia sperimentale svolte nei musei e negli anfiteatri di Monaco, Trier, Xanten, Aalen, Bonn, Bad Gogging, Mainz, Rosenheim e a Berlino nell'Altes Museum, oltre ad aver collaborato a numerosi documentari, programmi scientifici e film, soprattutto nelle scene di banchetto, per esempio in Sogno di una notte di mezza estate di Michael Hoffman, Il Gladiatore di Ridley Scott, Nativity di Catherine Hardwicke, Empire di Kim Manners.

Nei loro banchetti, però, c’era un problema: il vino. I vini prodotti con metodi moderni non erano certamente adatti per riprodurre in modo perfetto un banchetto ispirato all’epoca etrusca e romana, studiato in ogni minimo dettaglio e con l’attenta lettura delle fonti antiche.

E’ così che inizia la collaborazione con Francesco Mondini (Azienda agricola Tarazona Miriam), il quale, resosi conto che il vino servito durante i banchetti non era all’altezza della cucina di Egidio Forasassi, decide di dare vita ad una produzione sperimentale di vino prodotto nel modo più fedele possibile con il metodo in uso presso gli Etruschi.

In Italia, ormai da molti anni si stanno portando avanti ricerche storiche, archeologiche e botaniche sulle viti e sulla vinificazione delle origini. Questa branca di studi presenta aspetti interessanti anche sotto l’aspetto dello sviluppo economico locale e il progetto realizzato da Francesco Mondini nella campagna aretina, congiunge imprenditoria e cultura. Gli studi e le sperimentazioni di Mondini sono iniziate ben 15 anni fa e solo da poco ha finalmente visto la luce il Vinum Nerum, un rosso che Francesco ama definire una “spremuta d’uva”, in quanto non contiene solfiti, né alcun altro tipo di conservante. Nei quindici anni di test sono stati consultati storici, archeologi, dottori in agraria, geologi e mastri cocciai per ricreare le giare che servivano per la conservazione del vino.
Maurizio Pellegrini, in particolare, ha seguito da vicino il progetto avendone intuito le potenzialità anche dal punto di vista educativo e divulgativo. Grazie a lui, sono entrata in contatto con Francesco Mondini e sono stata invitata, insieme a Laura Patara (tour operator) e a Francesca Pontani (archeologa, redattrice web e membro del consiglio scientifico del Museo Archeologico delle Necropoli Rupestri di Barbarano Romano) a visitare l’azienda e a conoscere il metodo di vinificazione del vino Nerone e del vino Nerum.

La bellissima Azienda Tarazona ha vitigni di circa 80-90 anni che sono di Sangiovese, Canaiolo, Ciliegiolo, Albana, Trebbiano, Malvasia, che vengono sapientemente uniti in percentuali 85% uve rosse e 15% uve bianche. La vigna viene trattata con sistema biologico certificato e biodinamico, cioè concimata con trinciature e tenuta a prato con escrementi animali. Appena raccolta, l’uva viene pigiata una parte a mano e una parte messa in graspugliatrice (molto lenta) e poi una volta riunita, fatta fermentare in cantina in orci di terracotta per 12-15 giorni, follandola manualmente, specie i primi giorni, almeno 4-5 volte al giorno.


La "collina degli orci" presso l'azienda Tarazona di Arezzo


La "collina degli orci" vista dal basso
Francesco Mondini accanto agli orci interrati.

Avvenuta la totale trasformazione degli zuccheri in alcool, il mosto viene portato nella collina degli orci, dove sono posizionati sia gli orci coibentati con resine e cere da dove poi uscirà il Nerum, sia gli orci vetrificati da dove uscirà il Nerone (che ho avuto il piacere di assaggiare durante il banchetto magistralmente preparato da Egidio Forasassi).


I vitigni

Il Nerone viene messo sotto terra senza utilizzo di pompe, dove la temperatura costante, la quasi completa assenza di ossigeno, il buio e l’interscambio con la terra lo rendono un vino unico nei colori, nei profumi, nei sapori e nei retrogusti, veramente senza paragoni. Dopo 18 mesi verrà imbottigliato in magnum e tenuto altri 6 mesi in cantina prima di essere messo sul mercato.


Un magnifico panorama del vigneto


Nel novembre 2013, l’Unesco ha dichiarato Intangible Cultural Heritage la vinificazione in orci in Georgia, uno Paese che vinifica ancora come 5000 anni fa, e pertanto anche l’Azienda Tarazona ha potuto ricevere i permessi per poter commercializzare l’unico vino al mondo fatto con il metodo Mondini, che unisce storia e tecnologia.


Francesco Mondini videointervistato da Francesca Pontani

Per illustrare nel modo migliore il progetto Vinum Nerum, ho rivolto alcune domande a Francesco Mondini e a Maurizio Pellegrini.


Francesco Mondini, come è nata l’idea di riprodurre il vino etrusco?

Nel 2000 fui invitato ad un convivio etrusco-romano a Populonia da un caro amico che oltre che cucinare suona anche con i Synaulia (www.soundcenter.it). Alla fine della splendida serata con cena e musica nella necropoli, mi avvicinai al mio amico e obbiettai sulla veridicità del vino servito durante il convivio; ne nacque una bella discussione alla fine della quale decisi di dedicare una parte della vinificazione del nostro vino a esperimenti per arrivare a produrre un vino il più possibile simile a quello che bevevano i nostri avi. La totale assenza di aggiunte chimiche portava ad un gran numero di problemi che con il passare degli anni grazie oltre che ai nostri studi anche alla collaborazione con archeologi, dottori in agraria, geologi, enologi sono stati felicemente superati.


L'ingresso alla "cantina etrusca"

Come avviene il processso di vinificazione nelle giare?

Qui in Toscana il vino “Nerum”, dopo essere stato spremuto in cantina, riposa per almeno 1 anno in orci realizzati a mano da mastri cocciai, coibentati a mano con resine e cera, completamente interrati a 3 mt di profondità per poi tornare negli orci in cantina per almeno 6 mesi. Nel 2015, dopo 25 secoli, potremo gustare un vino vinificato con il metodo antico, quindi quello che ad oggi si può supporre si avvicini di più al vino di quell'epoca, di questa zona, sulla base del percorso di archeologia sperimentale da noi effettuato. I sapori e i profumi derivati dall’interscambio con la terra e con la coibentazione lo rendono un vino totalmente unico e la gradazione può arrivare fino a 15 gradi.


I grandi orci per la conservazione del vino.

Il vino è completamente naturale in quanto non contiene solfiti aggiunti, quanto è difficile ottenere questo risultato?

E' molto difficile e dopo anni di aceto, grazie ai vitigni che donano un uva già ben strutturata, grazie alla collaborazione di enologi, geologi e dottori in agraria siamo riusciti con grande igiene in cantina in primis e poi con l'aiuto di azoto e argon che eliminano l'aria e sopratutto i travasi in tempi ridottissimi, ad ottenere un prodotto con solforosa bassissima. La longevità di questo vino la stiamo studiando ma abbiamo campioni di 13 anni rimasti inalterati nel tempo.

Il vino prodotto è attualmente un rosso. Avete in programma anche la produzione di un bianco?

Come dicono alcuni archeologi il primo vino è stato il bianco, non so quale sia stato veramente il primo ma quest'anno abbiamo sperimentato il metodo Mondini anche sulle nostre uve bianche. Vista l'annata fantastica, un mix di albana, trebbiano e malvasia ed un vitigno sconosciuto porteranno nel 2017 ad assaporare il nostro primo vino bianco, sperimentato già nel 2003 e nel 2005.


L'interno della "cantina etrusca"

I vitigni sono quelli di suo nonno e risalgono quindi circa a 80 anni fa. E’ previsto per il futuro un’ulteriore fase del progetto che preveda anche l'utilizzo di vitigni più antichi?

Siamo in una costante fase di ricerca con archeologi come Maurizio Pellegrini ed anche con la comunità montana e l'istituto per la selvicoltura di vitigni antichi. Poiché i pochi esperimenti fatti non sono in vendita, per ora cerchiamo di apprendere i modi di riproduzione ed i vari innesti usati. Siamo in contatto anche con due aziende che in maremma producono l'ansonica o insulia che è un vitigno addirittura portato dai greci. Pensiamo il prossimo anno di usarla e fare un esperimento al posto della nostra bianca locale. L'obbiettivo sarà riprodurre il Nerum anche con vitigni antichi.

Quali saranno i canali per la distribuzione commerciale del vino? Dove si potra' reperire?

Ci stiamo preparando alla prima uscita, per cui tanta curiosità specialmente dall'estero con contatti dal Giappone dall'Inghilterra, da Singapore, dalla Germania e tanti altri posti, stiamo valutando tutte le richieste che ci arrivano. Noi abbiamo solo 170 Anfore di Nerum e circa 150 magum di Nerone, per cui visto la modesta quantità per noi sarebbe un grande onore partire con vendite alle aste dirette a collezionisti o amatori non solo del vino ma anche della storia che il vino ci tramanda. Siamo stati contattati anche da un distributore locale per il vino Nerone, ma comunque per ora si può reperirlo direttamente in azienda.

La sigillatura dell'orcio  

Maurizio Pellegrini, a che epoca risalgono le prime tracce della produzione del vino in Italia?

Negli ultimi anni le ricerche nel campo della paleobotanica sono effettivamente aumentate e rincorrerle, anche per i diretti interessati, è abbastanza complesso.
La cultura classica da sempre ha attribuito ai Fenici, che colonizzarono l'Italia attorno all'800 a.C., e successivamente a Greci e Romani, il merito di aver introdotto la vite domestica nel Mediterraneo occidentale e la recente scoperta di un vitigno coltivato circa tremila anni fa (1300 - 1100 a. C.) dalla civiltà Nuragica finalmente contraddice con valide prove tale teoria. Infatti presso un nuraghe nelle vicinanze di Cabras, presso Oristano, sono stati scoperti alcuni semi di vitigni di vite domestica probabilmente di origine locale o, forse, importata più anticamente. A suffragio di questa ipotesi, il gruppo di ricerca sta raccogliendo materiali in tutto il Mediterraneo cercando tracce per verificare possibili "parentele" tra le diverse specie di vitigni. I semi, di vernaccia e malvasia ritrovati in un "pozzo dispensa", sono stati datati con l'esame del carbonio 14 dagli studiosi dell'equipe archeobotanica del Centro Conservazione Biodiversità dell'Università di Cagliari e fanno ritenere che la coltura della vite nell'Isola fosse conosciuta sin dall'età del bronzo. Grazie alla prova del Carbonio 14 i semi sono stati datati intorno a 3000 anni fa, età del bronzo medio e periodo di massimo splendore della civiltà Nuragica".
Invece alcune tracce di Vitis sylvestris, con forme di embrionale coltivazione, sono stati trovate anche nei siti della "Marmotta" sul lago di Bracciano datate fra il 5750 e il 5260 a.C. e di Sammardenchia-Cûeis, in provincia di Udine, un sito datato tra il 5600 e il 4500 a.C. circa.
Altri resti di vite selvatica sono stati rinvenuti nei siti di Piancada (Udine) e Lugo di Romagna (Ravenna), entrambi risalenti al Neolitico antico.
Nella direzione di una origine indigena della viticoltura in Italia vanno anche le ricerche praticate nell'ambito del "Progetto Vinum" mediante lo studio degli aspetti legati all’origine e all’evoluzione della viticoltura, al processo di produzione del vino nell’antichità e con le analisi dei genotipi delle viti autoctone campionate in prossimità dei siti etruschi e romani.


La preziosa anforetta del Nerum


La sperimentazione condotta dall’Azienda Tarazona di Francesco Mondini è un interessante esempio di connessione tra nuove forme di imprenditoria e cultura. Quali potrebbero essere gli sviluppi futuri? Penso, per esempio, al turismo culturale o alla possibilità di realizzare esperienze didattiche all’interno dell’azienda.

L'esperienza portata avanti dall’Azienda Tarazona apre veramente nuove prospettive; per prima cosa la vinificazione praticata dagli amici Francesco Mondini ed Egidio Forasassi demitizza finalmente la convinzione comune che il cibo dell'antichità non possa essere gradito anche ai giorni nostri. Effettivamente gran parte del vino antico aveva una gradazione alquanto elevata, questo perché in questo modo poteva essere conservato più a lungo e per questo motivo doveva essere diluito ed aromatizzato. Ma, sono certo, che in condizioni ottimali e sempre legate al ceto, il vino doveva essere anche molto buono. Quindi bere oggi un vino che si avvicini alla vinificazione antica ma che abbia anche un gusto "moderno" non può che essere considerato un azione culturale ed avvicinarci di più alla nostra storia come apprezzare un affresco in un sito o un antico vaso nella vetrina di un museo.  Un futuro sviluppo può essere senz'altro quello del turismo culturale da effettuarsi nelle aziende che seguiranno questo impulso ed esperienze didattiche accompagneranno indubbiamente questa nuova prospettiva imprenditoriale.

I musei, le aree archeologiche, le istituzioni culturali che sono interessate alla realizzazione di eventi con Synaulia e con l’Azienda Agricola Tarazona possono utilizzare i seguenti contatti:

Vinum, storia del vino nell'Italia antica

In occasione dell'edizione speciale di #smallmuseumtour, dedicata al tema "I musei, il cibo, l'alimentazione", patrocinata da Expo Milano 2015, Maurizio Pellegrini, responsabile del Laboratorio di Didattica e Promozione visuale della Soprintendenza Archeologia del Lazio e dell'Etruria meridionale ci ha fatto omaggio del suo documentario "Vinum, Storia del vino nell'Italia antica", espressamente ridotto e adattato per la visione su Twitter durante #smallmuseumtour.
Buona visione!

TRASPARENZA NEI MUSEI: UNA BATTAGLIA TUTTA ITALIANA

Intervista a Daniela Rizzo e Maurizio Pellegrini, Ufficio sequestri della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Etruria meridionale




L’Ufficio sequestri della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Etruria meridionale, diretto da Daniela Rizzo, coadiuvata da Maurizio Pellegrini, è stato istituito nel 1985 allo scopo di monitorare e arginare il fenomeno degli scavi clandestini e il traffico illecito di reperti archeologici, in stretta collaborazione con l’Autorità Giudiziaria e con le Forze dell’Ordine. E’ grazie a questa sinergia che, a partire dal 1995, si è dato inizio ad un piano di rintracciamento di molte antichità esportate illegalmente, grazie al quale, in particolare negli ultimi dieci anni, sono stati raggiunti risultati straordinari tra i quali si evidenzia il rientro in Italia di molti importanti reperti archeologici, come il cratere di Euphronios e la Venere di Morgantina. La “battaglia etica” condotta dall’Ufficio sequestri della Soprintendenza ha interessato anche l’ambito giudiziario, conseguendo, ugualmente, esiti importanti: si ricorda, fra tutti, il procedimento penale contro Marion True, ex curatrice delle antichità del Paul Getty Museum, che si è poi concluso con la prescrizione. Sono ancora molte le antichità da recuperare e a questa attività è necessario associare un’altrettanto indispensabile opera di mediazione e di collaborazione con i musei stranieri e con i Paesi in cui sono stati trasferiti illegalmente i reperti. Ho incontrato Daniela Rizzo e Maurizio Pellegrini per porre loro alcune domande riguardo questi temi.

- Possiamo affermare che il nostro Paese, più di altri, con un’azione forte di recupero delle proprie antichità, ha indotto i musei americani a riesaminare comportamenti che probabilmente, fino a qualche decennio fa, erano tacitamente permessi?

Certamente l’attività di contrasto del traffico illecito di materiale archeologico condotta a partire dalla metà degli anni ’90 dalla Procura della Repubblica di Roma in collaborazione con gli archeologi della Soprintendenza e le Forze dell’Ordine ha riscosso un insperato successo: infatti, molti direttori di musei stranieri, anche famosissimi, hanno finalmente cominciato a porsi il problema della “provenienza” dei reperti archeologici che ancora oggi vengono posti in vendita sul mercato internazionale. E’ un piccolo passo, ma se si pensa che fino a qualche anno fa centinaia di reperti, anche veri e propri capolavori, venivano acquistati dai musei senza alcun problema, se non addirittura “ordinati” direttamente ai più noti trafficanti italiani o stranieri, crediamo di poter ben sperare per il futuro del nostro Patrimonio Archeologico

- I curatori americani stanno vivendo un momento particolarmente critico e di profondi cambiamenti dopo il procedimento penale contro Marion True; alcuni ritengono che il ricorso agli strumenti giudiziari non sia il più adatto, ma che si debba percorrere, piuttosto, la via del dialogo al fine di giungere ad accordi ragionevoli per entrambe le parti. Che cosa ne pensate al riguardo?

Indubbiamente il ricorso all’Autorità Giudiziaria in questo campo dovrebbe essere limitato solo ai casi più gravi di “incomunicabilità” con le Istituzioni straniere che rifiutano ogni contatto con l’Italia: il dialogo tra gli archeologi di tutto il mondo dovrebbe essere diretto, rapido e non soggetto a iter burocratici lunghi, estenuanti e ben poco produttivi. Come abbiamo avuto modo di dire più volte, gli studiosi di archeologia parlano un linguaggio comune, tendono tutti a “salvare” e a valorizzare i reperti, anche se con modalità e punti di vista diversi. Forse un dialogo più stretto e informale tra gli studiosi potrebbe portare risultati migliori e in tempi più rapidi.

- Il problema della depredazione e del traffico illecito di reperti non riguarda soltanto i rapporti tra Italia e USA. E’ possibile avere un quadro della misura di tale fenomeno? Quanti sono i reperti che devono ancora rientrare in Italia e quali sono gli altri Paesi, oltre gli USA, con i quali l’Italia sta avviando azioni di recupero?

Fino ad ora l’Italia ha concluso accordi di restituzione di reperti archeologici solo con alcuni musei americani, mentre con alcuni musei europei che detengono reperti illecitamente usciti dall’Italia il dialogo non sembra sia giunto a conclusioni positive, almeno per ora. Eppure nel corso del nostro lavoro, durato ben 13 anni, abbiamo individuato in molti musei europei reperti di provenienza italiana certamente acquistati attraverso il mercato illecito e gli esiti delle nostre ricerche sono stati segnalati alla Procura di Roma e al Ministero per i Beni e le Attività culturali, ma al momento non sappiamo se e con quali paesi siano in corso trattative di restituzione.

- A vostro parere si potrebbe pensare, nell’ambito della formazione universitaria, a preparare archeologi che, unendo le competenze della disciplina archeologica a nozioni giuridiche e del diritto internazionale, siano in grado di portare avanti, in futuro, il lavoro da voi iniziato?

Sarebbe indubbiamente importantissimo avere nei ruoli del Ministero giovani archeologi che possano vantare una formazione specifica in un settore tanto delicato e complesso come questo.

- Quale sarà il futuro dell’Ufficio sequestri? Si prevede un potenziamento, visti i notevoli risultati conseguiti fino ad oggi?

In un momento così difficile per il Paese e per il futuro del nostro Ministero non vediamo assolutamente la possibilità di un potenziamento del Servizio Circolazione Beni che, purtroppo, sembra destinato a chiudere i battenti nel momento in cui noi andremo in pensione. Non si prevedono a breve assunzioni di giovani, le cosiddette “nuove leve” a cui passare il “testimone” e tramandare i “trucchi del mestiere”: se non ci sarà a breve un incremento di personale, l’esperienza fatta fino ad ora rimarrà solo un bel ricordo da rintracciare negli archivi della Soprintendenza.

Intervista realizzata da Caterina Pisu per ArcheoNews (Gennaio 2012)

Un progetto didattico museale per la Scuola Elementare Ellera di Viterbo.


Si è concluso ieri, martedì 31 maggio, il progetto didattico da me organizzato con la Scuola Elementare “Ellera” di Viterbo in collaborazione con la Soprintendenza per i beni archeologici dell’Etruria Meridionale e la supervisione di Maurizio Pellegrini, responsabile del Laboratorio di didattica e promozione visuale della Soprintendenza. Il progetto didattico è stato articolato in tre distinti percorsi incentrati sui temi:


-         Gli oggetti degli Etruschi


-         Il cibo degli Etruschi


-         Come scrivevano gli Etruschi (l’alfabeto e gli strumenti di scrittura)


Il primo percorso, “Gli oggetti degli Etruschi”, è stata incentrato sul metodo del confronto tra gli oggetti antichi, utilizzati dagli Etruschi, e altri oggetti, più familiari agli alunni, utilizzati quotidianamente in ambito domestico.  


Stimolando i ragazzi all'individuazione di uguaglianze o diversità tra gli oggetti,  confrontandoli sia rispetto alla loro  collocazione cronologica (passato/presente) sia alla loro specifica funzione (oggetti per bere, per contenere, per cuocere i cibi, ecc.), si è cercato di sviluppare la loro attenzione “selettiva” e quindi la capacità di osservare le cose in maniera analitica, classificandole in modo ordinato e acquisendo nel contempo i termini specifici relativi ai tipi vascolari e agli strumenti di uso domestico di epoca etrusca.


Dopo una lezione preliminare in classe, dove il confronto tra gli oggetti è stato effettuato portando all’osservazione diretta alcuni oggetti moderni in plastica, come brocche, piatti, bicchieri, colini, imbuti, etc. e i corrispondenti oggetti antichi, rappresentati da copie di reperti per uso didattico, le classi sono state condotte al museo per esaminare gli oggetti esposti e riconoscerne le forme, le funzioni e i nomi.


Il secondo percorso, “Il cibo degli Etruschi” è stato dedicato all’analisi dei cibi e delle abitudini alimentari degli Etruschi. Gli alunni hanno confrontato l’alimentazione moderna con quella antica, cercando analogie e diversità, scoprendo i cibi che ancora oggi utilizziamo e quelli che ancora non esistevano all’epoca degli Etruschi.


Nel Museo Nazionale Etrusco, Rocca Albornoz, è stato possibile osservare l’allestimento di una cucina e  di un triclinio, ricostruiti nella sezione “Architettura etrusca nel Viterbese” (piano terreno del Museo di Viterbo).


L’ultima proposta, “Come scrivevano gli Etruschi”, è stata particolarmente interessante perché ha permesso ai ragazzi di riconoscere i segni grafici dell’alfabeto etrusco, di leggerli e di riprodurli, componendo anche una semplice frase. Durante la visita al museo, gli alunni hanno individuato scritte etrusche su vasi e sarcofagi.


Al termine dei tre percorsi didattici, i ragazzi hanno realizzato a scuola alcuni cartelloni con disegni e fotografie che hanno riassunto quanto appreso e alcuni modellini di vasi etruschi realizzati con materiali di riciclo e decorati con la tecnica del decoupage. Tutti i lavori sono stati quindi trasportati al Museo Nazionale Etrusco di Viterbo dove è stata allestita una piccola mostra aperta al pubblico.


Hanno partecipato al progetto i bravissimi alunni delle sezioni A, B, C, D della Va classe della Scuola Elementare “Ellera” di Viterbo. Un ringraziamento particolare alle insegnanti della Scuola e alla Dirigente scolastica, la Dott.ssa Anna Maria Cori.


Durante l’inaugurazione della Mostra, la direttrice  del Museo, funzionario archeologo della Soprintendenza per i beni archeologici dell’Etruria Meridionale, Dott.ssa Valeria D’Atri, e Maurizio Pellegrini, hanno consegnato un attestato di partecipazione a ciascuna classe in ricordo dell’esperienza trascorsa. La Mostra dei ragazzi resterà aperta al pubblico fino al 5 giugno.














Fine del processo contro Marion True

Nessuna condanna per l’ex curatore del Paul Getty Museum: dopo cinque anni scadono i termini di prescrizione



Dopo cinque anni si conclude per decorrenza dei termini il processo a carico di Marion True, curatrice delle antichità del Paul Getty Museum di Los Angeles dal 1987 al 2005, accusata di associazione per delinquere, ricettazione e traffico illecito di beni archeologici. Il processo italiano contro la True, incentrato principalmente sull’acquisizione illegale di circa 35 manufatti acquisiti dal museo di Los Angeles tra il 1986 e la fine degli anni ‘90, era iniziato nel 2005; negli anni successivi il procedimento era stato portato avanti con molta lentezza finchè lo scorso 13 ottobre il giudice Gustavo Barbalinardo ha dovuto chiuderlo definitivamente per intervenuta scadenza dei termini di legge. Dalla sua residenza francese, la True avrebbe dichiarato di essere felice per la fine del processo, dicendosi «sollevata che sia passato il tornado che le ha distrutto la vita».



Il processo prosegue, invece, per il commerciante svizzero Robert Hecht, incriminato insieme alla True, a Giacomo Medici e ad altri trafficanti, ma la scadenza dei termini, luglio 2011, è ormai vicina anche per  questo processo.



Sia la True che Hecht hanno sempre negato ogni imputazione, ma il Pubblico Ministero Paolo Giorgio Ferri e i periti della Soprintendenza per i Beni Archeologici per l'Etruria meridionale, Daniela Rizzo e Maurizio Pellegrini, che hanno collaborato con il PM insieme al Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, sono riusciti a ricostruire con estrema precisione e accuratezza, in tanti anni di indagini e di meticolose perizie, la provenienza illecita di tantissimi reperti archeologici acquistati dal Getty Museum.



Nonostante la mancata condanna della True, il bilancio di questi anni di lavoro del PM Ferri e del suo team è altamente positivo: innanzitutto la True è stata il primo curatore di museo americano ad essere stata sottoposta a procedimento penale all'estero per un’accusa di commercio illecito di antichità, e questo è già un risultato senza precedenti. Dalle testimonianze ascoltate durante il processo è emerso con chiarezza che Marion True era consapevole di acquistare le antichità attraverso canali non regolari. La sua incriminazione ha obbligato il mondo museale americano ad una profonda autocritica e a rivedere le proprie regole di acquisizione di nuove collezioni. Ora è sicuramente molto più difficile che un museo statunitense possa esporre una qualunque opera d’arte o un reperto archeologico senza essere in grado di dimostrarne la provenienza legale. Lo Stato italiano, da parte sua, ha incentivato la restituzione di reperti in cambio di prestiti a più lungo termine di quanto non si sia fatto finora. Ciò permetterà, quindi, ai musei americani di poter arricchire le proprie esposizioni in maniera lecita, sotto forma di prestito temporaneo.



Il secondo risultato importante è stato il colpo inferto alle organizzazioni criminali, tombaroli e trafficanti d’arte che in tanti decenni hanno imperversato nel nostro Paese saccheggiandone in modo illimitato l’inestimabile patrimonio archeologico. La difficoltà di poter avere, i grandi musei stranieri come principali committenti, come invece accadeva fino a poco tempo fa, produrrà sicuramente un contenimento dei traffici illeciti, sebbene restino ancora aperti altri canali, come quelli del collezionismo privato.



L’obiettivo principale del PM Ferri e del suo team, in ogni caso, è stato soprattutto quello di ottenere la restituzione dei reperti archeologici trafugati all’Italia. Già durante la gestione della True, prima dell’inizio del processo a suo carico, furono restituiti circa 3500 oggetti provenienti dal sito di Francavilla Marittima e la famosa kylix greca di Onesimos ed Euphronios. Successivamente, durante i cinque anni del processo, sono stati restituiti più di cento reperti in possesso non solo del Getty Museum ma anche di altri musei statunitensi, tra cui il Metropolitan Museum of Art di New York e il Boston Museum of Fine Arts. Tra tutti si ricorda il celebre cratere di Euphronios, vaso attico a figure rosse datato intorno al 510 a.C., ora esposto nel Museo Etrusco di Villa Giulia, il vaso di Asteas, un cratere a calice a figure rosse del 340 a.C. proveniente da scavi clandestini in Campania, gli acroliti di Demetra e Kore, risalenti al V secolo a.C. e provenienti da scavi clandestini a Morgantina, ora esposti nel Museo Archeologico di Aidone, mentre si attende nel 2011 la restituzione della Venere di Morgantina.



E’ ancora battaglia, invece, per l’atleta di Lisippo, tuttora reclamato dall’Italia, nonostante l’attuale responsabile della collezione Getty, Stephen Clark, abbia prodotto documenti sulla presunta buona fede del museo nell’acquisizione della statua bronzea. Circa un anno fa il gip Lorena Mussoni ha comunque deciso per la confisca, cui è seguito il ricorso in Cassazione della Fondazione Getty che, tuttavia, non sarà sospensivo della rogatoria né dell’azione civilistica, in quanto la confisca è una misura di sicurezza immediatamente esecutiva. Si spera, ora, in trattative diplomatiche tra Italia e USA che consentano il ritorno della statua in Italia ma, intanto, la Regione Marche, da cui proviene il prezioso reperto, è intenzionata a dare battaglia per ottenerne al più presto la restituzione.



Come ha scritto recentemente Fabio Isman su “Il Giornale dell’Arte”, non si può ignorare che la “brutta abitudine” di acquistare oggetti antichi di dubbia provenienza non appartiene soltanto ai musei d’oltreoceano ma anche ad importanti musei europei. Il caso più recente è proprio quello del Museo Archeologico Nazionale di Madrid che nel 1999 ha comprato una collezione privata in cui i già citati archeologi Daniela Rizzo e Maurizio Pellegrini hanno riconosciuto ben ventidue oggetti provenienti da scavi clandestini in Italia. Mi unisco a Isman nella speranza che lo Stato Italiano chieda al più presto la restituzione anche di questi reperti e che, con altrettanta urgenza, si favorisca la collaborazione internazionale, tenendo conto di passi importanti già fatti, come la Convenzione Unidroit (Convention on Stolen or Illegally Exported Cultural Objects), ratificata a Roma il 24 giugno 1995: essa è una soluzione di compromesso tra i vari sistemi giuridici del mondo intero ed è il risultato di dieci anni di lavori, cui hanno partecipato due organizzazioni internazionali, l’Istituto internazionale per l’unificazione del diritto privato (Unidroit) e l’UNESCO, oltre a numerosi esperti. Purtroppo, soltanto undici stati hanno ratificato la Convenzione Unidroit, mentre dodici si sono limitati alla semplice adesione. La Convenzione è stata ratificata dall'Italia con legge 7 giugno 1999, n. 213, ed è entrata in vigore il 1 aprile 2000. E’ ora assolutamente necessario impegnarsi per rafforzare ed estendere il più possibile la Convenzione Unidroit in altri Paesi, avviando trattative internazionali e pretendendo un impegno concreto per combattere la piaga del traffico illecito di beni culturali. E’ importante non abbassare la guardia perché se oggi la Svizzera sta perdendo il suo ruolo di snodo internazionale del traffico di reperti archeologici, grazie anche all’adozione di proprie leggi, molto più severe rispetto al passato, nel contempo si sono già consolidati altri percorsi di transito dei trafficanti e delle merci, diretti soprattutto verso l’estremo Oriente. A livello mondiale, infatti, il traffico di beni culturali saccheggiati continua ad essere tuttora il più cospicuo subito dopo il traffico di droga e di armi.



Caterina Pisu (ArcheoNews novembre 2010)

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