Un articolo di Salvatore Settis

Il Museo non è un’azienda: è ancora diffuso uno degli equivoci che danneggia la tutela del nostro patrimonio
Salvatore Settis
MERCOLEDÌ 11 OTTOBRE 2006, LA REPUBBLICA


Bilanci sempre più esigui e Soprintendenze al collasso. La tutela pubblica è molto diminuita negli ultimi anni. Solo un grande patto nazionale fra soggetti diversi, dallo Stato ai privati, può invertire la tendenza.

Una buona notizia: i ministri Rutelli e Padoa Schioppa hanno costituito una commissione interministeriale, presieduta dal presidente della Biennale Davide Croff, che promuova una concezione più moderna e ariosa delle relazioni fra economia e cultura in Italia. Certo, bisogna aspettare la fine dei lavori, e vedere se le proposte che ne emergeranno sapranno tradursi in provvedimenti concreti (per esempio per la detassazione delle erogazioni liberali).
Ma tentiamo subito qualche riflessione sul rapporto fra pubblico e privato nella gestione del patrimonio culturale, che è oggi fonte di equivoci e mitologie. Secondo una concezione più "tradizionale", il patrimonio culturale è di competenza pubblica, e ogni intromissione del privato è una profanazione; altri propugnano l'idea più "moderna" (qualunque cosa ciò voglia dire) che lo Stato deve passare la mano ai privati. Il recente calo delle risorse pubbliche ha dato fiato a quest'ultima posizione, ma le dichiarazioni del ministro Rutelli indicano un'inversione di tendenza, in sintonia con quanto tempo fa ha scritto Prodi sul Corriere della Sera, impegnandosi a riportare il livello della spesa pubblica del settore ai livelli del 2001, per giungere presto all'1% del Pil. È il livello della Francia: l'Italia, con una concentrazione e capillarità di beni culturali assai maggiore, è sotto lo 0.50% del Pil.
Più Stato o più privato? Questa contrapposizione non è nei fatti né nella tradizione civile, culturale, istituzionale del nostro Paese, ma nasce dalla cronaca spicciola degli ultimi anni. Anni in cui si è registrato l'arretrare della macchina pubblica della tutela, un crescente conflitto di competenze fra Stato, regioni ed enti locali, il blocco di ogni turn over dei funzionari tecnico-scientifici. Questo decadimento ha innescato proposte di due segni diversi: per alcuni, basterebbe ridistribuire alle Regioni le funzioni di tutela per generare un miracoloso rilancio di ciò che oggi non funziona in
mano allo Stato; per altri, la formula magica è invece "privatizzare". Idee improvvisate, che tuttavia attirano l'attenzione sulla centralità del patrimonio culturale e sulla necessità di precisarne gli attori e le forme di conservazione, di fruizione e di gestione.
La parola d'ordine di una sommaria privatizzazione si è diffusa sotto la spinta convergente di due fattori: la tendenza ad "alleggerire" la spesa pubblica e lo Stato, generatasi nell'era Thatcher-Reagan, e la coscienza delle dimensioni del nostro patrimonio culturale (diffuso in Italia con un'intensità e una capillarità senza pari), e dunque della difficoltà di reperire le risorse per conservarlo in modo appropriato. A ciò si è aggiunta un'immagine grossolana dei musei americani, attivi e dinamici perché privati: privatizzare i nostri musei sarebbe dunque la strada per generare d'incanto le risorse necessarie.
Ora, i musei americani non coprono mai più del l5-20 per cento delle spese di gestione con introiti diretti; hanno sostanziosi contributi pubblici (dell'ordine medio del 10-20 per cento); si alimentano soprattutto di donazioni private, rese possibili da una efficiente fiscalità di vantaggio per il contribuente. In altri termini, negli Stati Uniti lo Stato contribuisce doppiamente ai musei e alla ricerca: con una quota di contributi diretti, ma anche privandosi di enormi introiti fiscali onde incoraggiare le donazioni private. E così che i musei americani possono accantonare i propri assets e investirli, finalizzando gli utili a tutte le spese di gestione (80-85 per cento) che gli introiti diretti non bastano a coprire. Per esempio, il Getty Trust di Los Angeles ha assets investiti per circa otto miliardi di dollari, e introiti diretti pari al 10 per cento delle spese di gestione: il restante 90 per cento è coperto dagli utili. Per privatizzare secondo il modello americano gli Uffizi, trenta volte più grandi del Getty, occorrerebbe un capitale investito trenta volte maggiore. Il museo americano di cui in Italia si favoleggia, produttore del reddito necessario a sostentarne le spese di gestione, e un miraggio. Per un problema vero (dinamizzare i nostri musei e reperire nuove risorse) si è indicata una soluzione confusa e impraticabile.
Eppure questa falsa mitologia stenta a morire, come mostra un documento (distribuito in Consiglio dei ministri nel novembre 2005, governo Berlusconi) secondo cui «la gestione dei beni culturali dev'essere improntata a logiche imprenditoriali che producano reddito attraverso una impresa ad hoc, proprio perché (il reddito è) destinato a sostenere la conservazione e la fruizione. Lo sfruttamento del bene pubblico risponde alle logiche del mercato e collima, sua sponte, con le esigenze della fruizione e della conservazione, poiché il bene è esso stesso il fattore di produzione della impresa». Secondo questo credo iperliberista, il bene culturale esiste per essere sfruttato, e solo in quanto produce reddito potrà essere conservato e fruito dai cittadini. Anche se prontamente sconfessato non appena questo giornale lo rese noto, il documento va ricordato come sintomo di una forma mentis attardata in un aziendalismo di maniera, anche in un ambito che per sua natura lo rigetta.
Non meno aggressivi sono stati i tentativi di privatizzare il patrimonio culturale mettendolo in vendita. Si sa che in mano pubblica c'è una quantità notevolissima (dunque difficile da gestire) di patrimonio immobiliare e che il combinato disposto della legge di tutela del 1939 e del Codice Civile ha reso in principio «patrimonio culturale» ogni immobile con più di 50 anni di vita, con ciò accrescendo a dismisura la quantità (non la qualità) del patrimonio immobiliare pubblico. Rendere alienabile l'intero patrimonio pubblico (culturale o no) è inaccettabile: ma è proprio quello che tentò Tremonti con la sua "Patrimonio dello Stato SpA" (2002) e le cartolarizzazioni che ne seguirono. Secondo Giuseppe Guarino, che ha rilanciato il tema in due convegni romani (ottobre 2005 e giugno 2006), per ridurre il debito pubblico «è necessario immettere sul mercato i beni immobili di interesse storico, archeologico e artistico, che sono giuridicamente inalienabili. Bisogna dunque fornirli di un reddito, e insieme abrogare, con atto avente forza di legge, il vincolo della inalienabilità».
Evidentemente Guarino, in un momento di distrazione, ha dimenticato l'art. 9 della Costituzione: bisognerà abrogare anche quello?
Altre distrazioni e dimenticanze serpeggiano in ogni dove: nell'editoriale del Giornale dell'arte di giugno, Sergio Romano propone un sistema di dismissioni di immobili pubblici, subordinato a rigorose condizioni di tutela, garantite da «un corpo ispettivo di cui il Ministero per il momento non sembra disporre». Non esistono dunque più, nella memoria di un editorialista di tanto prestigio, le Soprintendenze? Davvero molta è la confusione sotto il sole, se le élites di questo Paese sembrano dimenticare la Costituzione e le istituzioni. Ma non è forse lo stesso Stato ad aver dimenticato le Soprintendenze, se da anni non assume più personale tecnico-scientifico (tanto che l'età media degli addetti è oggi intorno ai 55 anni)?
Non si può discorrere del rapporto fra pubblico e privato se si parte dal presupposto dello smantellamento dello Stato, dei suoi principi e delle sue strutture.
L'intervento del privato può esser concepito in sussidio, e non in sostituzione o supplenza, delle pubbliche istituzioni. Benemeriti sono i contributi delle fondazioni bancarie, e tuttavia preoccupa che siano concentrati nelle regioni del Nord (intorno al 70 per cento), e quasi assenti in tutto il Sud (meno del 5 per cento).
Importantissimo sarebbe introdurre una vera fiscalità di vantaggio (stavolta sì, secondo il modello americano), ricordandosi che negli Stati Uniti il 73 per cento delle donazioni non proviene da "grandi donatori" (come le imprese), bensì dalle modeste donazioni di privati cittadini. Altre forme di intervento dei privati si possono certo sperimentare, senza dimenticare che quelli che da noi si chiamano "servizi aggiuntivi", a cominciare dalla didattica museale, in molti Paesi ( la Francia come l'America) sono considerati parte del corebusiness del museo, e perciò gestiti direttamente.
L'inversione di rotta che il nuovo governo sembra voler segnare su questo fronte lascia sperare una più matura riflessione sulla distribuzione dei ruoli sia all'interno del fronte pubblico (superando i conflitti di competenza fra Stato e regioni conseguenti al nuovo, infelice Titolo V della Costituzione), sia nell'equilibrio fra pubblico e privato. La più grande ricchezza dell'Italia è l'ineguagliabile continuum tra tessuto urbano e musei, fra case e monumenti, fra città e campagna, fra ambiente e paesaggio. La vera "redditività" di questo patrimonio non è negli introiti diretti e nemmeno nell'indotto che esso genera (incluso il turismo), bensì in un senso di appartenenza che incide a fondo sulla qualità della vita, e dunque anche sulla produttività della società nel suo insieme. Quello che sapremo fare in questo campo è un banco di prova essenziale per il nostro futuro. Stimolare la creatività dei cittadini di oggi e di domani con la presenza e la memoria del passato, alimentare la consapevolezza dei valori storici, civici e simbolici che permeano il nostro patrimonio culturale vuoi dire accrescere la nostra capacità di rinnovarci affrontando le sfide del futuro.
È dunque necessario ridisegnare il ruolo del pubblico e del privato, redistribuendone i ruoli nel rispetto dell'art. 9 della Costituzione, perché la capacità propositiva e progettuale dei privati possa affiancarsi alla professionalità delle strutture pubbliche della tutela (da rinnovarsi mediante l'iniezione di nuovo personale, di giovane età e di alta qualificazione).
Più Stato o più privato? La risposta è una sola: potrà esserci più privato solo se ci sarà più Stato.
È forse giunto davvero il tempo di stringere un grande patto nazionale per la tutela, che includa Stato, Regioni, enti locali, privati, e che parta non dalla suddivisione dei ruoli né dalla spartizione delle torte, ma dalle esigenze vitali e ineludibili del nostro patrimonio e da quelle dei cittadini.

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