Strategie di accoglienza nei musei



Quando chi gestisce un museo vuole capire se questo è abbastanza accogliente per i visitatori, non può non coinvolgere tutto il personale che lavora nel museo, perché è questo che contribuisce in maniera determinante a rendere l'ambiente più o meno accogliente. 

Nel manuale dell'Icom "Comment gérer un musée", Vicky Woollard suggerisce questo esercizio: innanzitutto pensiamo a quando ci è capitato di avere personalmente una buona esperienza di accoglienza. Dove è successo? In una banca? In un aereo? In un albergo? In un treno? In un negozio? Perché ci siamo sentiti soddisfatti? Siamo stati accolti con un sorriso? Abbiamo ricevuto informazioni soddisfacenti? Il luogo era pulito e ben tenuto? 

Dopo aver compiuto questa riflessione, chiediamoci, allora, che tipo di esperienza vorremmo che vivessero i visitatori del nostro museo.

Quindi, invitiamo ciascun dipendente a dare il suo contributo per la creazione di due liste in cui indicare da una parte le cose che rendono mediocre la qualità del servizio, dall'altra quelle che la rendono buona. 
Godetevi la discussione - continua la Woolard - finché non arriverete a concordare i dieci criteri positivi in base ai quali imposterete le nuove norme del museo, questa volta approvate da tutti e quindi sicuramente più efficaci. 

Urban experience: un “gioco” che rinnova il concetto di turismo


di Caterina Pisu

In questo post non si parla espressamente di musei, ma di innovazione culturale e valorizzazione dei territori, un tema che non può non interessare da vicino anche chi si occupa di musei. 
Ieri, infatti, grazie all’amica Laura Patara, ho avuto la fortuna di partecipare ad un esperimento molto interessante, l’Experience Lab, un brainstorming (letteralmente “tempesta di cervelli”, tecnica molto usata nel settore pubblicitario) rivolto alle imprese culturali che a luglio troveranno sede nel nuovo Incubatore ICult di Viterbo,  e organizzato da Urban Experience e BIC Lazio.  
L’attività laboratoriale proposta è stato il walk show di esplorazione urbana, una passeggiata multimediale nel centro storico viterbese, in cui ci siamo avvalsi dell’uso di twitter (#urbexp #biclazio) per raccogliere gli spunti che sono emersi nel corso del “brainstorming” itinerante.



“Anima” dell’esperienza è stato Carlo Infante, presidente di un’associazione di promozione sociale che ha attivato il social network urbanexperience. Infante, oltre ad essere giornalista, esperto di teatro, nuovi media e di tecnologie per l’apprendimento, è stato anche l’ideatore del concetto di Performing Media, creato per definire l’interazione sociale e culturale con i nuovi media interattivi. L’idea è promuovere l’uso creativo della città, “per reinventare lo spazio pubblico tra web e territorio”.
Hanno preso parte all’Experience Lab tutti soggetti attivi, in varie forme, nell’ambito imprenditoriale, turistico, culturale, insieme alla sottoscritta che ha rappresentato l’Associazione Nazionale Piccoli Musei.



L’Experience Lab ha anticipato ciò che ci si proporrà di fare con la prossima inaugurazione dell’Incubatore ICult, auspicando che questa nuova realtà possa essere anche l’”acceleratore” di un processo teso ad aggregare gli imprenditori che vogliono investire nel territorio viterbese. E non si tratta solo di business, «perché vale la pena investire intelligenze ed energie nel territorio e trovare il modo di far “giocare” i turisti, anzi, i “viaggiatori”» - per usare le parole di Carlo Infante.
L’incubatore sarà ospitato nell’ex mattatoio di Viterbo e - fa notare Infante” -  «i mattatoi posti in area urbana sono i luoghi che, non solo in Italia, ma in tutta Europa, per primi sono stati dismessi e riadattati per altri usi, soprattutto culturali. Hanno sempre fatto parte, cioè, di progetti di rigenerazione urbana associata alla progettazione culturale».



Durante il walk show ci siamo avvalsi di un sistema radio che ci ha permesso di rimanere connessi tra noi,  muovendoci in modo più libero rispetto alle visite guidate tradizionali che costringono a rimanere sempre uniti gli uni agli altri, ascoltando l’unica voce della guida. In questo caso, invece, era anche possibile allontanarsi, continuando, però, ad ascoltare le conversazioni tra Infante e i vari partecipanti,  osservando le peculiarità di uno dei borghi più belli d’Italia, ma così poco valorizzato. Attraverso il collegamento radio abbiamo ascoltato anche alcuni repertori audio, trasmessi mediante un tablet, che hanno arricchito l’esperienza sensoriale.



Il percorso si è snodato per le vie della Viterbo medievale, a cominciare dal Duomo per poi raggiungere il quartiere medievale con una breve visita al piccolo Museo del Sodalizio dei Facchini di S. Rosa. Si è cercato di andare oltre la classica visita che illustra le radici storiche di una città, entrando in un’ottica diversa, cogliendo spunti che potranno contribuire alla futura rigenerazione urbana.

Il metodo usato, quello di “camminare, osservare e dialogare”, cambia l’approccio del brainstorming propriamente detto: in questo caso non eravamo seduti intorno a un tavolo a discutere e a confrontarci. «Siamo come uno sciame di api che raccolgono informazioni e poi le diffondono sui social networks» - è l’interpretazione proposta da Carlo Infante.

Nel pomeriggio, al termine dell’experience lab abbiamo accolto il pubblico per il walk show finale dal titolo: “La terra che dice. Ascoltando il genius loci etrusco lungo la via Francigena”, evento inserito nel programma del FestivalCollective Project Via Francigena 2013 promosso dall’Associazione Europea delle Vie Francigene e Civita. In pratica, abbiamo ripetuto lo stesso percorso della mattina, ma questa volta coinvolgendo anche i nuovi partecipanti.

Che cosa è emerso da questa esperienza? Innanzitutto che dobbiamo imparare qualcosa dal territorio. Si è detto che Viterbo è una città poco valorizzata, così come lo è tutto il territorio della Tuscia. Ma il “caso Viterbo” può essere esteso a tutta l’Italia perché sono tante le situazioni simili. Si può parlare, piuttosto, di un “caso Italia”. E’ importante, allora, riuscire a coniugare la progettazione culturale con l’innovazione. La cultura, infatti, non è più circoscritta solo alle “belle arti”; per cultura oggi si intende tutto ciò che caratterizza un territorio e lo rende unico, comprendendo nel concetto la sua capacità di produrre innovazione e creatività, ma anche quella di saper trasmettere la propria “eredità” alle generazioni future. Cultural heritage vuol dire letteralmente “eredità culturale”, anche se noi traduciamo questo termine come “patrimonio culturale”, perdendo, forse, il senso più esatto dell’espressione inglese.

Alla luce di quanto è emerso dalla nostra riflessione, abbiamo concluso, o meglio ancora, abbiamo rafforzato la convinzione che una delle vie di salvezza dell’Italia - forse “la via di salvezza” - è la valorizzazione del  territorio. Tutta l’energia spesa per trasformare le città in smart-cities, cioè in ambienti urbani che impiegano tecnologie capaci di migliorare la qualità della vita, non può non essere indirizzata principalmente verso questo obiettivo. 
Non a caso, accanto al PIL, che indica il valore totale dei beni e servizi prodotti in un Paese e che quindi può esprimere il benessere di una nazione, ora è considerato ugualmente importante anche il BES (benessere eco-sostenibile), un indicatore che è in grado di andare oltre il PIL. Che c’entra con il territorio? Moltissimo, dato che la valutazione del BES considera ben 12 campi che comprendono, tra gli altri, oltre al benessere economico, all’istruzione, alla formazione, al benessere soggettivo, alla salute e ai tempi di vita, anche l’ambiente, la qualità dei servizi, il lavoro, le relazioni sociali, la ricerca e l’innovazione, il paesaggio e il patrimonio culturale.

Questa esperienza ci ha anche aiutato a capire che l’Italia è un luogo “da attraversare" e che bisognerebbe “combinare” i percorsi in modo coerente (per esempio la via francigena con il corridoio bizantino che collegava Roma con Ravenna). Ma non solo, abbiamo potuto focalizzare che uno dei maggiori vantaggi che ha l’Italia è la biodiversità, che ha reso estremamente diverso un territorio dall’altro. Dunque, bisogna cogliere le peculiarità e saperle narrare.

Gli incontri della nostra Urban Experience viterbese


Durante la nostra esperienza, abbiamo avuto occasione di conoscerci tra noi durante il briefing che ha preceduto l'Urban Experience e nel corso del walk show. Personalmente sono stata colpita in modo particolare da tre di loro, senza nulla togliere a tutti gli altri, e che descriverò, di seguito, nell’ordine in cui li ho conosciuti:

Alessandro Pichardo: alla ricerca della tomba perduta

Il primo di cui voglio raccontare è Alberto Pichardo, archeologo spagnolo che si sta occupando di un progetto di internazionale che include, tra gli altri obiettivi, la ricerca della sepoltura di Papa Alessandro IV (1199-1261), il pontefice che trasferì da Roma a Viterbo la curia pontificia. La tomba fu nascosta per impedire che le spoglie del Pontefice fossero depredate; dai documenti risulta sepolto sotto il duomo di Viterbo, ma nessuno ha mai ritrovato il luogo esatto, per cui per secoli è rimasto il “mistero” irrisolto di Viterbo.
La tecnica usata nella ricerca condotta da Pichardo si basa sulla generazione di onde soniche, registrate da una serie di sensori disposti seguendo un tracciato geometrico, i quali permettono di misurare il tempo impiegato dalle onde durante il loro passaggio all’interno dei materiali. Poiché la velocità di propagazione delle onde elastiche è in relazione alle proprietà elastiche del materiale stesso, questo consente di scoprire la presenza di cavità o di strutture particolari che si differenziano dai materiali circostanti. Oltre a questa tecnologia saranno usati anche altri strumenti, come potenti metal detector e sistemi di esplorazione robotizzati e telecamere a fibre ottiche per le ricognizioni endoscopiche da utilizzare negli spazi di difficile accesso.

Alberto Pichardo davanti all'effigie di Papa Alessandro IV, posta all'interno del Duomo di Viterbo

Alberto Pichardo e un geofisico collocano gli elettrodi ai piedi della scalinata del Duomo


Ma la ricerca della sepoltura di Papa Alessandro IV non è, come abbiamo già accennato, l’unico obiettivo. Il progetto si propone anche di studiare le strutture archeologiche sottostanti il Colle del Duomo, dove dovrebbero trovarsi i resti dell’originario sito etrusco; individuare altre cavità antropiche come cunicoli, cisterne, gallerie, cripte, sepolture, ecc. ecc.; studiare la geologia e la stratigrafia del Colle del Duomo; studiare e mappare le condizioni di potenziale instabilità degli edifici situati sul Colle del Duomo, su cui per anni fu operativo l’Ospedale di Viterbo, e dove attualmente sono ubicati il Seminario e la sede vescovile. Intanto è notizia di pochi giorni fa che Alberto Angela realizzerà un documentario sulle ricerche condotte da Pichardo nell’ambito del progetto internazionale “Alessandro IV”.

La Viterbo sotterranea di Sergio Cesarini:

Il secondo personaggio di Viterbo che ho incontrato durante la nostra Urban Experience è Sergio Cesarini, giornalista e direttore di “Viterbo sotterranea”, un percorso di origine etrusca che si snoda nelle viscere del quartiere medievale di San Pellegrino. Si tratta di un patrimonio storico della città di Viterbo che Cesarini ha valorizzato rendendolo fruibile al pubblico. Per ora sono percorribili un centinaio di metri disposti su due livelli, a tre e ad otto metri di profondità, dove sono visibili anche i resti di alcuni “butti” medievali, ma presto (probabilmente in concomitanza con la Festa di S. Rosa, a settembre) si aprirà un altro tratto che includerà alcuni spazi adibiti a laboratori didattici, soprattutto a beneficio delle scuole. Altri progetti stanno per essere realizzati da Cesarini anche nella provincia viterbese – e di cui spero di poter raccontare a breve - a dimostrazione che con le buone idee, la capacità e l’entusiasmo, si possono raggiungere obiettivi importanti che portano benefici alla comunità in termini di sviluppo e di occupazione.

Renato Petroselli: l’imprenditore filosofo

Tra le persone che ho conosciuto durante l’Urban Experience, mi ha particolarmente colpito Renato Petroselli, un viterbese che ha saputo “reinventarsi” imprenditore turistico/culturale dopo aver lasciato la professione che, negli anni Settanta, lo portò ad essere il primo operatore televisivo di Televiterbo e tra i primi ad utilizzare la tecnica dello storyboard nella pubblicità.  
Nel suo racconto, sollecitato dalle domande di Carlo Infante che gli chiedeva quale fosse il rapporto dei viterbesi con la propria città, mi ha colpita la sua frase “prima di promuovere, bisogna conoscere”, cioè bisogna essere consapevoli del valore di ciò che cerchiamo di promuovere. E questo è un concetto che appartiene anche alle teorie promosse dall’Associazione Nazionale Piccoli Musei. Se i residenti non sono i primi ad essere coscienti della ricchezza del proprio territorio, che cosa potranno trasmettere ai turisti di passaggio? 
E’ fondamentale, allora, lavorare prima all’interno della comunità e poi dare impulso al territorio, perché solo così si riuscirà a mettere in relazione chi è depositario della conoscenza, o meglio, chi “possiede la memoria storica del luogo” con chi vuole apprendere, a cominciare dalle nuove generazioni che a loro volta dovranno diventare testimoni e divulgatori della propria eredità culturale.

Leggi anche: http://museumsnewspaper.blogspot.it/2015/04/libere-riflessioni-sulle-invasioni.html

TUTTI I BOTTONI DEL MONDO

Intervista a Giorgio Gallavotti, fondatore e direttore del Museo del Bottone di Santarcangelo di Romagna


Intervista realizzata da Caterina Pisu

I bottoni hanno sempre avuto un fascino particolare su di me, fin da quando ero bambina, quasi quanto le palline colorate degli alberi di Natale. D’altra parte i bottoni sono sempre stati i giocattoli dei bambini di tante passate generazioni, quando la fantasia non era ancora stata rimossa dal frastuono alienante dei videogiochi. Pertanto, quando ho iniziato la mia collaborazione con l’Associazione Nazionale Piccoli Musei, circa due anni fa, è stata una piacevole sorpresa scoprire che tra i nostri soci più attivi vi è il direttore del Museo del Bottone di Santarcangelo di Romagna, Giorgio Gallavotti. Ho fatto la sua conoscenza ad Amalfi, lo scorso novembre, in occasione del terzo convegno nazionale dei Piccoli Musei, dove Gallavotti - che è intervenuto ad ogni nostro convegno, fin dalla prima edizione - era presente insieme alla gentilissima signora Giulia. Mi ha colpita la sua affabilità, quei modi così educati e perbene che ricordano i tempi di una volta. Deve esserci uno stile che accomuna coloro che nella loro vita si occupano o si sono occupati di bottoni, perché il mio pensiero corre subito ad un ugualmente distinto signore di Viterbo (la città dove vivo), proprietario di un’antica merceria in piazza delle Erbe, che è una delle persone più garbate che io conosca. Anche Giorgio Gallavotti ha venduto bottoni nel negozio paterno, aperto nel lontano 1929. Nel 2002 ha cessato l’attività commerciale e ha potuto dedicarsi a tempo pieno al suo progetto: il Museo del Bottone. L’idea di un museo comincia a concretizzarsi nel corso degli anni Ottanta, ma quello che possiamo definire il “concept”, cioè il soggetto del nucleo narrativo del museo, ha avuto una definizione più graduale ed è nata dagli studi che Gallavotti ha dedicato, in tanti anni, alla storia del bottone. I magazzini del negozio paterno potevano contare su una collezione di circa 8.500 bottoni che abbraccia quasi tutta la storia del Novecento, pertanto l’idea è stata quella di raccontare la storia attraverso i bottoni. I bottoni, come le tendenze della moda, sono cambiati nel corso degli anni e possono parlarci dei mutamenti della società, delle rivoluzioni delle tradizioni e dei costumi, ed anche delle singole storie delle persone. E in effetti il museo può essere “letto” attraverso vari percorsi di visita che spaziano dalla storia delle due guerre mondiali alle dittature del Novecento, dall’emancipazione femminile alle Olimpiadi, ed altri ancora che ricordano le tappe più importanti della nostra storia e della storia mondiale, come il boom economico degli anni ’50, la crisi degli anni di piombo, la fine della guerra fredda. Non mancano bottoni che parlano anche di periodi più antichi che risalgono fino al 1600- 1700-1800. Tutto l’allestimento è stato creato con infinita pazienza dallo stesso Gallavotti, che ha cucito i bottoni sui pannelli e li ha incorniciati per il museo definitivo che è stato aperto nel 2008.
Il museo attira moltissimi visitatori (sta per raggiungere i 200.000 ingressi dalla sua apertura, non pochi per un piccolo museo) e bisogna anche dire che è uno dei pochi musei privati ad ingresso gratuito. Forse proprio per questo è diventato innanzitutto uno dei musei più cari ai cittadini di Santarcangelo di Romagna, che ne sono giustamente orgogliosi.
Ma come mai un piccolo museo come il Museo del Bottone riesce ad attirare tanto interesse intorno a sé? Il merito deve essere attributo alle sue collezioni? All’allestimento? Alla capacità di accogliere i visitatori? Probabilmente da tutte queste cose insieme, unite ad un’ottima capacità comunicativa che vede il museo al passo con i tempi, presente sul web con un sito ufficiale, un blog, e con un’intensa attività anche sui social networks. Questa è una strategia che funziona e un modello dal quale dovrebbero trarre insegnamento tanti professionisti museali che sono molto meno sensibili sia all’arte dell’accoglienza che a quella della comunicazione. Ma, come afferma Giancarlo Dall’Ara, fondatore dell’Associazione Nazionale Piccoli Musei, ogni museo ha anche una sua personalità che è definita da un insieme di fattori e dalle precise scelte di chi lo amministra. E allora, per cercare di capire qual è la personalità del Museo del Bottone, ho intervistato il suo creatore e direttore, Giorgio Gallavotti, che oltre a dirigere il Museo è anche, come già accennato, un profondo conoscitore della storia dei bottoni (è autore del volume “Bottoni. Arte, moda, costume, società, seduzione, storia”, Editore Pazzini). Dall’intervista sono emerse una sensibilità e una consapevolezza della pratica professionale del museologo che a volte non riscontriamo in coloro che sono specializzati nella materia.

Giorgio Gallavotti

- Giorgio, che cosa c’è della tua famiglia e, in particolare, dell’eredità morale di tuo padre, in questo museo?
L’eredità morale che mio padre mi ha lasciato è impagabile: “l’onestà e il rispetto di tutti”. Questi, in quei tempi, erano i principi cardine di ogni persona, e mio padre, nato nel 1901, mi ha trasmesso quei valori col suo esempio e col suo comportamento nella vita di tutti i giorni. Vicesindaco di Santarcangelo nei primi anni Cinquanta, non ha mai preso una lira per lo svolgimento delle sue funzioni. Se doveva recarsi fuori dal comune, adoperava i mezzi pubblici e se li pagava di tasca propria.
Soprattutto non dimenticherò mai il suo esempio sul lavoro. Dopo la seconda guerra mondiale, con la ripresa delle attività, mio padre è andato a Milano, alla prima fiera campionaria del dopoguerra. Ha comperato dei matassoni di filo di vari colori da 500 metri per cucire a mano e a macchina. Bisognava fare delle spolette da 100 metri, che era la misura delle confezioni standard, avvolgendo il filo su dei cartoncini arrotolati. In questo modo le sarte, o chi aveva bisogno del filo per cucire, poteva avere la quantità che occorreva dato che le confezioni standard di fabbrica non si trovavano più o erano nascoste per il mercato nero. La misura doveva essere precisamente di 100 metri, perché se qualcuno avesse avuto voglia di controllare e fosse risultato un metro in meno, sarebbe stato un grande disonore per la famiglia e per il negozio. Nonostante tutto, alla fine ebbe la beffa dello Stato: dovette pagare i profitti di guerra.

Giacomo, padre di Giorgio Gallavotti, ritratto nella sua merceria


- Che cos’erano i profitti di guerra?
Finita la guerra e con la ripresa dell’economia, chi aveva la merce da vendere, generalmente ne approfittava per venderla molto più cara e magari sottobanco per guadagnare di più. Questo aveva fatto fiorire il mercato nero con la realizzazione di profitti ricavati in maniera non lecita. Lo Stato, allora, pretese una tassa forfettaria su questi introiti da tutti, sia da quelli che erano stati onesti che da quelli che non lo erano stati. Questi erano i cosiddetti “profitti di guerra”.

La merceria dei Gallavotti negli anni Sessanta

Il negozio nel 1970


L'interno del negozio negli anni Settanta


- Che parte hanno avuto i tuoi famigliari in questo progetto?
Nello svolgimento della loro attività di merceria, i miei genitori hanno conservato sempre tutte le rimanenze in un  magazzino, soprattutto i bottoni che, formando molte giacenze, hanno costituito il nucleo originario della collezione del Museo.
La cosa più importante è che i miei genitori hanno sempre avuto fiducia in me. Già ventenne mi hanno dato la possibilità di gestire il negozio assieme a loro lasciandomi la responsabilità per quanto riguardava gli assortimenti. La cosa che mi piaceva di più era comperare i bottoni:  sceglievo i più all’avanguardia nella moda e anche i più costosi. Il bello è che avevano successo e il nostro negozio era sempre pieno di sarte.
La mia famiglia all’inizio mi lasciava fare e non mi ha mai ostacolato nella progettazione del Museo. Dopo la prima mostra, nel 1991, visto il successo, hanno capito che facevo sul serio. Pian piano sono diventati solidali e mio genero ha anche creato il primo sito internet del Museo. Ora mia moglie, che odiava la storia e i bottoni, è diventata una brava guida molto apprezzata dai visitatori. Nei momenti di necessità, quando ci sono raduni e feste al Museo, e abbiamo necessità di più personale, anche mia figlia si attiva e spesso prepara il buffet e lo serve.

- Qual è stato il complimento ricevuto da un visitatore che ti ha fatto più piacere?
Con 200.000 visitatori i complimenti sono tantissimi e tutti graditi. Sono il cibo dell’animo. Per non fare torto a nessuno ne cito uno di un visitatore particolare. Per me è stato dolcissimo e mi ha fatto scendere  una lacrima: «Caro nonno il tuo museo è molto bello. La tua parola non è una parola ma una storia lunghissima». Allora la mia nipotina aveva 8 anni.

File di bottoni in vendita nella merceria di famiglia, chiusa nel 2002.


- Se tu avessi a disposizione ingenti risorse, pari a quelle dei più grandi musei del mondo, cambieresti qualcosa nel tuo museo o pensi che nulla dovrebbe essere modificato?
Troppo bello avere ingenti risorse. L’unica cosa che non cambierei è il luogo dove ora si trova il Museo, un posto strategico per il Museo ma soprattutto per il turismo santarcangiolese.
Preciso che l’allestimento attuale è molto soddisfacente e anche pratico per i visitatori. Ma…cercherei di comperare od affittare il locale vuoto sopra il Museo; di ricavare uno spazio per la sezione dei materiali, della biblioteca e una sala per le conferenze per svolgervi anche le lezioni agli alunni delle scuole e per la formazione dei giovani che in futuro saranno il personale qualificato che gestirà il Museo.
Se potessi disporre di personale altamente qualificato nel Museo, avrei più tempo per scrivere e per le mie ricerche sul mondo dei bottoni; potrei aumentare i contatti con le scuole e così potrei portare il Museo nelle aule attraverso le mie visite nelle scuole; potrei soddisfare più spesso le richieste di conferenze.
Rifarei tutto l’allestimento della sezione curiosità dal mondo, creando spazi più ampi fra i quadri e migliorando la disposizione cronologica che abbraccia l’arco di tempo 1600-1700-1800; inoltre disporrei luci mirate sui pezzi più pregiati e farei creare un dvd su di essi che potrebbe essere visionato in uno spazio apposito del Museo. 
Rimodernerei  la zona gift shop e book shop, dove sono disponibili due libri di cui sono l’autore, quadri di bottoni, bottoni, cartoline, manifesti ecc. ecc., che  ci permettono di sopravvivere. Tutto il materiale in vendita riguarda il Museo.

Visitatori affollano l'ingresso del Museo del Bottone


- Chi è, per te, una persona che varca la soglia del tuo museo?
Le persone che entrano nel Museo per me all’inizio sono tutte uguali, ma tutte diseguali.
Ognuna ha le sue caratteristiche, la sua cultura, il suo modo di vedere  le cose, ma soprattutto quasi tutti non pensano che dietro ad un bottone vi possa essere tanta storia, arte e cultura. Ognuno ha la sua visione, che è quella della sua intelligenza, della sua cultura e della sua sensibilità, e allora qui comincia la sfida. Innanzitutto, cerco di capire che tipo di persona ho davanti a me. Mi adeguo ai suoi desideri, al modo in cui preferisce svolgere la visita: ascoltando, osservando con attenzione e ascoltando con interesse i riferimenti alla storia, all’arte ecc. ecc.; oppure svolgendo la visita in modo meno impegnativo e più ludico. Interagendo con tatto e descrizione, riesco quasi sempre a meravigliarlo sul grande contenuto culturale che rappresenta il Museo del Bottone, ma anche su quanta strada ha fatto nel mondo. Così quando esce è soddisfatto di averlo visitato, mi rivolge tanti complimenti e  spesso scrive una dedica sul libro delle firme. Questo visitatore diventerà una fonte di pubblicità con il passaparola.

- Parliamo, ora, delle tue strategie di comunicazione. Sei molto attivo sia nel tuo blog, http://ibottonialmuseo.blogspot.it/, che sulla tua pagina Facebook. Che cosa significa, per te, essere comunicativo sul web? Riuscire a mantenere viva l’attenzione nei confronti del museo? Cercare di attrarre un maggior numero di visitatori? Mantenere i contatti con chi ha già visitato il museo? Migliorare l’informazione sul museo o che cos’altro?
La risposta a queste domande può essere solo una: il contatto è la cosa più importante nella vita. La vita è la vita degli uomini con gli uomini, non con le cose. Nelle relazioni ciò che conta è l’incontro. Mantenendo viva l’attenzione sul Museo si possono attrarre nuovi visitatori. E’ necessario rendere continuamente disponibili le informazioni sulle attività e sulle conquiste del Museo. E’ importante mantenere i contatti con i visitatori. Ma c’è anche un altro aspetto:  proprio il fatto di aver mantenuto continuamente viva l’informazione con i comunicati stampa attraverso i mass media,  ha  fatto sì che il Museo fosse conosciuto non solo in Italia ma anche nel resto del mondo. Questo ha portato sviluppi positivi per il Museo. Un esempio: nel 2010 Elena Chahanova giornalista accreditata a Radio Nazionale Bulgaria in Italia, ha parlato del Museo  del Bottone. Da quel momento abbiamo sempre mantenuto i contatti attraverso internet e questo ha fatto si che ne abbia parlato ancora, alla vigilia di Natale del 2012.

- Che cosa attrae, in particolare, i bambini e giovani che visitano il tuo museo? Hai ideato strumenti adatti a questa fascia di utenti per facilitare e rendere più coinvolgente la loro visita al museo?
I bambini, furbi ed intelligenti, sono una fonte di gioia. Spesso prima parlo con loro e li porto a vedere  i quadri che a loro piacciono, per esempio Biancaneve e i sette nani, Pinocchio e un quadro particolare dove vi sono bottoni degli anni Ottanta che rappresentano case, conigli, gelati, farfalle ecc. ecc. Di solito io indico loro un oggetto ma dicendo il nome sbagliato. Loro mi correggono subito e ridono; allora io, imperterrito, sbaglio tutti i nomi e loro si divertono un mondo. Alla fine regalo loro bottoncini di varie forme, soprattutto a forma di cappellino, di pallone, di coccinella, di mela o a forma di cuore. Quando, poi, incomincio a parlare coi  genitori, anche loro seguono tutto il percorso stando molto attenti e io continuo a sollecitare la loro attenzione.
I giovani o i ragazzini di 14-16 anni che vengono a visitare il museo, di solito sono coppie di “morosini” (fidanzati, NdR). All’inizio sono sempre timidi e premurosi, poi nel corso della visita perdono la timidezza e apprezzano tantissimo le storie dei bottoni. Spesso racconto loro le storie della seduzione e della provocazione che hanno come protagonisti i bottoni, e loro si accorgono di ascoltare quelle cose che provano realmente quando sono da soli. In omaggio offro loro fiori, bottoni Swarovski e cuoricini, che sono sempre graditissimi, e alla fine sul libro delle presenze scrivono frasi come: «qui si entra come in una favola e non viene mai la voglia di uscire…».

Bottoni esposti nel Museo


- Quali sono i Paesi da cui provengono maggiormente i visitatori stranieri? Si tratta di visite programmate o casuali?
In assoluto il Museo del Bottone è visitato dai turisti tedeschi che sono, per l’80%, gruppi prenotati accompagnati dalla loro guida.
Quest’anno, dal 3 marzo 2013, il movimento dei tedeschi è stato di 100-150 presenze al giorno per  quattro giorni alla settimana. Nella classifica seguono i francesi, i russi, i belgi, inglesi e gli statunitensi. Meno numerosi, invece, i visitatori provenienti dai paesi ex Urss, Norvegia, Olanda, Spagna, Canada, Argentina, Brasile, Cina, Giappone, sud est asiatico e stati africani.
Sul libro delle firme  le nazioni straniere conteggiate sono 120, provenienti da tutti i cinque continenti del Mondo. Il 50% dei francesi e dei russi arrivano in gruppi prenotati, accompagnati dalla loro guida. Altri giungono in piccoli gruppi autonomi e altri ancora, questo è importante, accompagnati da ex visitatori o amici e parenti. Il bottone come incontro fra le varie culture del mondo!

- Nel tuo museo in che modo metti in pratica i principi dell’accoglienza di cui tanto discutiamo nei nostri convegni dell’Associazione Nazionale Piccoli Musei?
Credo in parte di aver già risposto a questa domanda. E’ l’attenzione per i desideri della gente, accoglierli come quando arriva a casa un amico. La scalinata davanti al Museo è piena di manifesti sul Museo stesso. L’ampia porta a vetri è sempre aperta e da fuori si può intravedere l’esposizione: questo incuriosisce la gente che si chiede cosa potrà mai dire un bottone. L’ingresso gratuito è scritto ben visibile sulla bacheca esterna.
La guida, che ha il cartellino di riconoscimento come guida volontaria, accoglie il visitatore con un buon giorno, un sorriso ed una battuta spiritosa che mettono subito a proprio agio i visitatori, informando anche che si può fotografie. La guida, poi, costruisce un percorso comunicativo che emoziona il visitatore con  riferimenti al territorio e alla realtà culturale che ospita il Museo. Non lo sollecitiamo assolutamente a comperare libri, cartoline, bottoni ecc. ecc. sebbene la visita comprenda anche lo spazio allestito per l’acquisto di libri e souvenir. L’unica cosa che chiediamo è la firma di presenza per le statistiche.
Vi sono a disposizione, gratuitamente, fogli illustrativi che raccontano il Museo, cartoline con orari e foto del museo, brochures  complete di tutte le informazioni utili. Spesso alle signore e signorine riservo omaggi di bottoni particolari.

- Il tuo impegno è stato ed è supportato dalle istituzioni?
Pur avendone a disposizione, non mi hanno mai voluto concedere un locale. Sotto l’aspetto economico, dal maggio 2008 – primo giorno di apertura del Museo - al 31 dicembre 2012, le Istituzioni hanno contribuito al pagamento dell’affitto del locale per 5 mesi l’anno, ma quest’anno ancora non si sa che cosa succederà a causa della crisi e del sindaco dimissionario. Per il resto…la parola è d’argento ma il silenzio è d’oro!

- Se tu dovessi creare uno slogan per il tuo museo, così di getto, che frase ti verrebbe in mente?
«Un inno alla storia e all’arte», frase lasciata sul libro delle firme da un professore di storia della Università di Treviso, dopo una chiacchierata di due ore e mezzo, in un giorno di luglio, con 31 gradi di temperatura (la gente era tutta al mare), e che entrando aveva detto: «cosa può mai dire un bottone?»
La seconda opzione: «Il bottone, la memoria della storia».

- Grazie, Giorgio, per avermi concesso questa bellissima e coinvolgente intervista.
Ringrazio te, Caterina, per avermi fatto delle domande particolari che mi hanno permesso di scrivere sulla mia famiglia, ma soprattutto su mio padre a cui ho dedicato il mio primo libro del Museo. E’ un onore per il Museo del Bottone essere stato scelto per il tuo blog.
Permettimi, in conclusione, di fare dei ringraziamenti. In cinque anni di attività fissa il Museo ha raggiunto traguardi inimmaginabili per il numero delle visite, ben 200.000, ed è riuscito a farsi conoscere nel contesto nazionale e internazionale. Mi sento in dovere di rivolgere un ringraziamento particolare a tutti coloro cui debbo questo successo: ai soci dell’Associazione “Amici del Museo del Bottone”, all’Associazione “La Scatola dei Bottoni” e al suo presidente Sig.ra Lorena Ghinelli, che con i loro consigli e le loro osservazioni hanno dato un’impronta particolare alla conduzione  del Museo.
Ringrazio anche Claudia Protti che cura il blog “I bottoni al Museo”; le professoresse Ilaria Picardi e Chiara Marziani, per i contatti con l’Università della Moda di Rimini e per la creazione della pagina Facebook; il Prof. Giancarlo Dall’Ara, Presidente dell’Associazione Nazionale dei Piccoli Musei, che ha fatto del Museo dei Bottoni un’icona dei piccoli musei, portandola ad esempio in giro per l’Italia; la Pro Loco di Santarcangelo, con cui vi è un’ottima collaborazione; infine, le tante laureate che hanno svolto le loro tesi di laurea sul Museo del Bottone.
Ringrazio alcuni  di coloro che hanno portato il Museo in giro per il mondo: la giornalista bulgara di Radio Nazionale Bulgaria, Elena Chahanova, che ha raccontato il Museo attraverso le antenne di  radio nazionale; la giornalista cinese Pingsha Tian, che ha scritto sul Global Times di Pechino; la guida russa Yuri, che porta tantissimi turisti. Un grazie anche agli sconosciuti per il loro passaparola
Infine un particolare ringraziamento di cuore è per Caterina, per il suo impegno e dedizione per la conservazione del mondo della memoria. Grazie.



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Il Museo del Bottone si trova a Santarcangelo di Romagna, in provincia di Rimini.
Via Della Costa, 11
Tel. 0541624270


Aperto tutti i giorni dalle 10-12 15-18 orario invernale 10-12 16-18.30 21-23.30 orario estivo
Ingresso gratuito come la guida interna.

Offerta facoltativa per l'associazione no profit “La Scatola dei Bottoni” che cura la visibilità del Museo del Bottone.

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I racconti dei bottoni

Il Museo del Bottone ispira un libro di racconti di Silvio Biondi e Amedeo Blasi


di Caterina Pisu



I bottoni sono i protagonisti di una raccolta di nove racconti un po' surreali, divertenti, talvolta irriverenti, scritti da Silvio Biondi e Amedeo Blasi, due autori diversi per formazione e per professione, ma che insieme hanno saputo dare vita ai bottoni, immaginando "che i bottoni potessero parlare" - citando i due stessi scrittori - facendoli diventare piccoli "maestri di saggezza". Leggendo le pagine di questo volumetto mi sono affezionata ai singoli protagonisti: dal bottone papalino dell'"indeciso" e ambizioso Generale Zucchi al bottone di Papa Sisto V; dal bottone viterbese, ignorantello e anche un po' infame, ai bottoni rifugiati sul pianeta "Futuro Della Terra"; dal bottone del prete che vola sulla luna al bottone del ciabattino che diventa primo ministro e viene ucciso a causa del suo "brutto vizio" di fare del bene ai poveri. Per finire con il filo e bottone che litigano tra loro ma poi si accorgono di non poter fare a meno l'uno dell'altro, e con il "bottone volante" di Giorgio Gallavotti, che ci porta alle lontane origini del bottone. 
Da oggi in poi guarderò i bottoni con maggior rispetto perché in fondo è vero: loro, più o meno saldamente attaccati ai nostri abiti, sono i testimoni della nostra vita e chissà quante cose possono raccontare di ciascuno di noi!


Prende il via la terza edizione di Musées (em)portables

Si attendono tanti filmati italiani!





Torno a scrivere di Musées (em)portables di cui mi sono occupata anche lo scorso anno, il festival francese dedicato agli short film realizzati con i cellulari, lo strumento più semplice che ciascuno di noi porta sempre con sé. Eppure, con i cellulari c'è chi è riuscito a realizzare delle piccole opere d'arte, come dimostrano i filmati che hanno vinto la passata edizione e che possono essere visionati a questo link
Ognuno di essi è un vero e proprio piccolo film, è una storia, un modo molto personale di interpretare quel museo o quella mostra...un bel modo per esprimere noi stessi e il nostro rapporto con i musei. 
I filmati non devono superare i tre minuti, in base al regolamento pubblicato sul sito ufficiale,  www.simesitem.fr, che sarà presto aggiornato con tutte le informazioni relative alla terza edizione. 

Quest'anno la novità, a detta degli organizzatori, è l'internazionalizzazione della giuria con il mio ingresso, in rappresentanza dell'Associazione Nazionale Piccoli Musei. Oltre alla sottoscritta saranno presenti in giuria insieme a Jacqueline Eidelman, Chef du département de la politique des publics, Direction générale des patrimoines, Ministère de la culture et de la Communication, Jérôme Enrico, Cinéaste, Directeur de l’ESEC, École Supérieure d’Études Cinématographiques, Jean François Grunfeld, Président de Museumexperts SAS, Christophe Vital, Président de l’Association Générale des Conservateurs des collections publiques de France, George-Philippe Vallois, Président du Comité professionnel des galeries d’art, Jean-Christophe Castelain, Rédacteur en chef du Journal des Arts, Lionel Ollier, Rédacteur en chef de Sonovision Broadcast.

Spero che quest’anno, tra i vincitori del concorso possa esserci anche un film italiano, realizzato, forse, in uno dei nostri tanti piccoli musei!

Musei: la classificazione dell'UNESCO del 1984

Attualmente non esiste in Italia un documento che ripartisca tutti i tipi di musei, anche se una classificazione può essere desunta da un documento dell'UNESCO del 1984 che ha diviso i musei nelle seguenti undici grandi classi:

Musei d'arte: musei che espongono opere d'arte e d'arte applicata. All'interno di questo gruppo rientrano i musei di scultura, le gallerie di pittura, i musei della fotografia e del cinema, i musei di architettura, incluse le gallerie d'arte permanenti di biblioteche e archivi.

Musei di storia e di archeologia: i musei di storia si propongono di presentare l'evoluzione storica di una regione, di una zona o di una provincia per un periodo limitato o di lungo periodo. I musei di archeologia si distinguono per il fatto che le loro collezioni sono in parte o integralmente frutto di scavi. All'interno di questo gruppo sono compresi i musei con collezioni di cimeli storici, i memoriali, i musei di archivi, i musei militari, i musei dedicati a personaggi storici, i musei di archeologia, etc.

Musei di storia e scienze naturali: musei che espongono soggetti legati sia a una sia a più discipline come la biologia, la botanica, la zoologia, la paleontologia e l'ecologia.

Musei della scienza e della tecnica: musei connessi a una o più scienze esatte o a tecnologie come l'astronomia, la matematica, la fisica, la chimica, la medicina, le industrie edili, gli articoli manifatturieri. Sono inclusi i planetari e centri scientifici.

Musei di etnografia e antropologia: musei che presentano materiali sulla cultura, le credenze, i costumi, le arti tradizionali, etc.

Musei specializzati: musei interessati alla ricerca e alla sperimentazione di tutti gli aspetti di un singolo tema o soggetto non compreso nelle categorie precedenti.

Musei territoriali: musei che illustrano un territorio più o meno tale da costitutire un'entità storica e culturale e talvolta anche etnica, economica o sociale, le cui collezioni si riferiscono più a un territorio specifico che a un oggetto.

Musei generali: musei che possiedono collezioni miste e non possono essere identificati in un ambito principale.

Monumenti storici e aree archeologiche: opere architettoniche o scultoree e aree di particolare interesse dal punto di vista archeologico, storico, etnologico, antropologico.

Giardini zoologici, orti botanici, acquari e riserve naturali: la caratteristica è di presentarespecimen viventi.

Altri musei: musei non inclusi in nessuna delle altre categorie.

Il caso dell’Art Institute of Chicago: fuori tutti i volontari bianchi dal museo

Fonte dell'immagine: The Federalist Negli Stati Uniti, presso l’Art Institute of Chicago (AIC) si è aperto un caso che potrebbe essere d...